1 marzo 2014,
L’appoggio dell’Iran e dell’Arabia Saudita ai mussulmani di Bosnia e del Kosovo, il sostegno della Germania alle indipendenze croate e slovena o le proiezioni della Russia verso le popolazioni di fede ortodossa sono altrettanti fattori che hanno influito pesantemente sullo spazio ex jugoslavo a partire dagli anni ’90.
Di fatto, intervenendo direttamente in Bosnia (accordi di Dayton del 1995) e in Kosovo (1999), o indirettamente per il controllo delle rotte del gas e del petrolio, l’impero americano ha accelerato il crollo di un Paese che solo un decennio prima era stato sul punto di firmare un accordo di pre-adesione alla Comunità Economica Europea.
All’indomani della Seconda guerra mondiale, Josip Broz, detto Tito, edificò – sulle rovine del regno fondato nel 1918 e invaso nel 1941 da Tedeschi e Italiani – una nuova Jugoslavia comunista. La federazione delle sei repubbliche, create nel 1946, basava il suo collante sulla Lega dei Comunisti di Jugoslavia e sulla statura internazionale del suo leader, creatore del Movimento dei Paesi non allineati. Ma il croato Tito temeva le ambizioni e il peso politico della componente serba (8 milioni sui 26 milioni di abitanti nel 1953) e suddivise la Serbia in tre entità, fra cui la Voivodina e il Kosovo-Metochie. Eliminò anche le opposizioni stalinista e monarchica, inviando i loro capi nel campo di “rieducazione” e prigionia di Goli Otok (1948-1956).
In realtà, Tito non riuscì a risolvere la questione nazionale. A partire dal 1964 commise l’errore di creare una nazione caratterizzata dall’adesione a una religione, la “nazione musulmana” di Bosnia-Erzegovina. I musulmani, sostenuti dall’Arabia Saudita, approfittarono di questo sostegno costruendo più moschee di quante ne erano state costruite sotto il dominio ottomano.
Nel 1968, nel vicino Kosovo-Metochie, la popolazione albanese chiese, nel corso di alcune manifestazioni, la creazione di una settima repubblica. Ottenuta una parziale autonomia, il Kosovo potrà così accedere alla presidenza federale nella Costituzione del 1974. I Serbi, in minoranza e respinti dal governo provinciale, cominciano a lasciare il Kossovo.
Nel 1971 anche le gerarchie del partito comunista croato reclamano una maggiore autonomia rispetto al governo centrale, ma la loro iniziativa viene stroncata da Belgrado.
Alla sua morte, nel 1980, Tito lascia un paese diviso e disarmato di fronte alla crisi economica. Il sistema di autogestione non funziona più; durante gli anni ’70 la crescita della disoccupazione aveva spinto molti jugoslavi all’emigrazione. Questa situazione economica contribuì ad aumentare le frustrazioni e a incoraggiare le spinte nazionaliste.
Dopo quattro anni di guerra, Franjo Tudjman (1922-1999) può ricostituire uno stato croato entro le frontiere definite da Tito nel 1945. Le autorità musulmane di Sarajevo proclamano a loro volta l’indipendenza nell’aprile 1992, avviando di fatto un conflitto con i Serbi e i Croati, che la rifiutano. Il conflitto bosniaco si concluderà con gli Accordi di Dayton: il 51% del territorio spetta ai Mussulmani e ai Croati, il 49% ai Serbi. Questi accordi consentono il ritorno alla pace e alla ricostruzione economica, ma non hanno, fino ad oggi, regolato il problema del ritorno dei rifugiati alle loro case.
Nel giugno 1999 il Kosovo viene sottoposto ad amministrazione ONU e il suo primo Alto commissario è il francese Bernard Kouchner, che istituisce una frontiera doganale con la Serbia. Il potere di Milosevic, ormai esangue, non può più impedire la “rivoluzione” dell’ottobre 2000. La Serbia-Montenegro si federa nel 2003, ma, di fronte alle crescenti divisioni fra le due repubbliche, il Montenegro sceglie l’indipendenza nel giugno 2006. L’autoproclamazione, nel febbraio 2008, dell’indipendenza del Kosovo, completa lo smantellamento della Jugoslavia. Il Kosovo diventa uno stato a rischio, diretto da clan mafiosi, in preda a traffici di ogni generi e dove 135.000 Serbi vivono ancora all’interno di enclaves isolate.
Scegliendo i musulmani come punto di appoggio della sua strategia jugoslava, Washington rimodellato il paese secondo i propri interessi politici, militari ed economici. Nel corso degli anni ’90 per formare l’esercito bosniaco, gli Americani allestiscono organizzazioni semi-private (MPRI) e votano dei programmi (Equip and train) favorevoli ai loro interessi militari industriali. Con la Conferenza di Dayton del 1995, che riporta la pace nell’area, il dipartimento di Stato americano impone alla Bosnia uno statuto che la rende di fatto ingovernabile, ma che consente loro di installare un laboratorio del nuovo ordine mondiale: moneta basata sul marco, occupazione militare continua dal 1995, Alto commissario che può destituire qualsiasi personalità politica legalmente eletta e congelare i beni dei leaders locali troppo indipendenti.
La realpolitik americana va incontro alla sua ora di gloria con l’affare del Kosovo. Dalla sua creazione nel 1993, l’UCK è considerato un movimento terrorista dal dipartimento di Stato. Ma nel giro di poco tempo il Segretario di Stato, Madelene Albright, intravvede l’interesse di spingere alla secessione gli Albanesi del Kosovo. In occasione della Conferenza di Rambouillet, la signora “simpatizza” con il giovane Hashim Tachi, esponente dell’UCK coinvolto in attività criminali e traffico di droga, e rovescia i negoziati in favore degli Albanesi: due settimane più tardi, il Kosovo viene bombardato in nome della giustizia e dei diritti dell’uomo. Si sa ora che, per l’occasione, sono state montate le peggiori menzogne, come ad esempio il falso massacro di Racak, o la cifra di 10.000 mila vittime inventata da Kouchner.
Altre ingerenze esterne spiegano, a partire dal 1991, la disintegrazione della Jugoslavia. La Germania ha sostenuto le indipendenze slovena e croata, finanziando attraverso i servizi segreti il movimento nazionale croato. Con la scusa di aiuti umanitari, le potenze musulmane sono intervenute anch’esse nell’area, anche in campo militare. Dal 1991 al 1995 l’Iran ha inviato armi alla Croazia mentre dei “Guardiani della Rivoluzione” hanno addestrato la 7a Brigata musulmana in Bosnia; l’Arabia Saudita ha, da parte sua, concesso un aiuto militare di 35 milioni di dollari all’esercito bosniaco.
Dal 1992, la “trasversale islamica”, che raggruppa albanesi, musulmani di Bosnia, del Kossovo, del Sangiaccato di Novi Pazar serbo (una regione montagnosa sulla frontiera fra la Serbia ed il Montenegro) e della Bulgaria, è stata oggetto di interesse di associazioni caritative islamiche, che impongono la sharia in enclaves come Tuzla, oppure riescono a creare temporaneamente piccoli emirati wahhabiti sul suolo bosniaco (è accaduto alla fine degli anni ’90). Con il nuovo millennio si assiste a una re-islamizzazione delle società bosniache o kosovare: l’Arabia Saudita invia predicatori, imam e insegnanti di arabo a predicare la jihad; ONG come l’Organizzazione Islamica Attiva provvedono alla costruzione di moschee, i cui imam provengono dal wahabismo saudita. Di conseguenza, anche il terrorismo islamista trova basi di appoggio: campi di addestramento di gruppi come Al Quaeda, El Mudzahid o Abu Bedir Sidik si trovano nel Sangiaccato e nel Kosovo (alcuni dei quali sono serviti da base arretrata per gli attentati di Londra e di Madrid). La politica condotta dagli Stati Uniti nei Balcani ha creato così le condizioni per l’attecchimento del terrorismo islamista e di quello dell’UCK nel Kosovo.
Al contrario, il Kosovo potrebbe beneficiare, per l’avvenire, del possibile crollo della Macedonia e del Montenegro. In effetti, si può prevedere che le minoranze albanofone di questi due stati possano aggiungersi allo stesso Kosovo-Metochie per formare, con lo stesso processo che ha trasformato la provincia serba in uno stato autoproclamato, un insieme albanofono di circa 3 milioni di abitanti. Questo Grande Kosovo sarebbe più o meno legato all’Albania propriamente detta sotto la forma di una confederazione.
Di fatto, è stato rallentato il processo di integrazione dei paesi balcanici. Dopo la Croazia, entrata nell’Unione Europea nel luglio 2013, gli altri stati dell’ex Jugoslavia dovranno aspettare. Nello stesso tempo gli Europei mettono in opera, localmente, le decisioni assunte a Washington: l’Alto rappresentante in Bosnia, o la missione Eulex in Kosovo (per aiutare le autorità a costruire uno Stato di diritto) avallano di fatto la politica statunitense.
In definitiva, l’impresa che, dall’esterno, ha operato per una nuova ricomposizione dei Balcani dopo la disintegrazione jugoslava, non ha risolto nulla. L’operazione statunitense, basata su principi “democratici”, sul diritto di ingerenza e sul “dovere di proteggere”, spesso invocati a geometria variabile, è miseramente fallita. Creando, inoltre, nuovi focolai di instabilità, come lo stato Bosniaco e quello del Kossovo. L’Europa, nell’attuale versione di Bruxelles, sembra incapace di dire la sua e soprattutto è ben lontana dal portare un contributo significativo alla pace nell’area.
Si può constatare, in tutto questo, come la storia nei tempi lunghi è di nuovo all’opera. In effetti, quello che sotto le vestigia ottomane era un tempo il “malato d’Europa”, sembra aver ritrovato oggi una nuova volontà di potenza. Argomenti che devono far riflettere i pur diminuiti fautori dell’adesione all’Unione Europea di uno Stato, che si inscrive in modo naturale, per effetto del suo sviluppo economico e del caos del vicino Oriente, nelle visioni dottrinali “neo-ottomane” del suo ministro più in vista, quello degli affari esteri, Ahmet Davutoglu.
Per saperne di più
N. Mirkovic, Le Martyre du Kosovo – Edition Jean Picollec, Parigi 2013
P. Pean, Kosovo: une guerre juste pour creer un etat mafieux – Fayard, Parigi 2013
A. Troude, Balkans, un eclatement programmé – Xenia, 2012
A. Troude, Géopolitique de la Serbie – Ellipses, 2006
J. Pirjvec, Le guerre jugoslave 1991-1999 – Einaudi, Torino 2002
Preso da: http://www.storiain.net/storia/jugoslavia-una-disintegrazione-annunciata-e-programmata/