Libia: il volto coloniale di Francia e Italia

di Pressenza – International Press Agency 
giovedì 6 settembre 2018
Sulla questione libica, Francia e Italia si guardano di traverso non solo perché si contendono il ruolo di pacieri nella speranza di assicurarsi un posto a tavola nella Libia che verrà, ma anche perché si rapportano in maniera diversa nei confronti dei due governi presenti in Libia. L’Italia collabora esclusivamente con Al-Serraj, capo di governo riconosciuto dalle Nazioni Unite, che però controlla solo la Tripolitania e pochi altri territori della parte occidentale del paese. La Francia, invece, sostiene più volentieri il generale Haftar, capo militare che controlla non solo la Cirenaica ma tutta la parte centrale e orientale del paese. Due scelte di campo non casuali che fanno assumere ai due rivali non tanto il volto dei pacieri disinteressati, quanto delle potenze coloniali assetate di controllo.

di Francesco Gesualdi

Ovviamente la questione petrolifera è sempre in primo piano, considerato che la Libia possiede le maggiori riserve di petrolio dell’Africa, le none nel mondo, circa 48 miliardi di barili (il 3% circa dell’intero ammontare delle riserve mondiali). Prima del rovesciamento di Gheddafi, nel 2011, la Libia produceva 1,65 milioni di barili di petrolio al giorno e 17 miliardi di metri cubi di gas all’anno. Le due risorse rappresentavano il 65% del prodotto lordo nazionale e contribuivano al 95% delle entrate governative. Ma dal 2013, la produzione si è praticamente dimezzata per l’attacco ai pozzi da parte delle innumerevoli milizie armate che tempestano la Libia.

Da un punto di vista operativo l’estrazione e la vendita degli idrocarburi è affidata alla National Oil Corporation (NOC), un’azienda di stato che opera non solo in proprio, ma anche per il tramite di società compartecipate da multinazionali, senza escludere la possibilità di permettere a quest’ultime di estrarre su licenza. Tra queste ENI che sotto varie forme societarie gestisce diversi giacimenti di gas e petrolio non solo onshore, ossia sulla terra ferma, ma anche offshore, ossia in mare, principalmente nella parte ovest del paese, quella sotto il controllo del governo Al-Serraj. Tuttavia la maggior parte del petrolio libico si trova nella parte centrale del paese, quella sotto comando del generale Haftar. Alcuni pozzi di questa zona sono gestiti dalla società Waha Concessions nel cui azionariato compare anche Total che da vari anni sta cercando una strategia per affermarsi in Libia. Con successo, dal momento che è presente anche in altre società che gestiscono altri due giacimenti: l’uno nel Mar Mediterraneo, l’altro nel Fezzan, la regione più a sud del paese.
Ma la difesa delle proprie imprese è solo uno dei temi che divide Francia e Italia. L’altro è il controllo del territorio su cui i due paesi sono di nuovo concorrenti. L’obiettivo principale dell’Italia è fermare l’arrivo di migranti attraverso il Mar Mediterraneo e poiché gli imbarchi avvengono nella parte occidentale della Libia, i legami sono stati stretti con Al-Serraj a cui è stata offerta amicizia e sostegno economico, in cambio del controllo dei flussi migratori. Così fece il governo Renzi e poi il governo Gentiloni per continuare col governo Conte.
Ovviamente l’Italia sa che una politica efficace contro flussi migratori richiede un blocco dei passaggi più a sud, già nel Niger, per cui vorrebbe avere più influenza nelle regioni del Sahel. Ma l’Africa sahariana ha una storia coloniale con la Francia e in questi paesi non si muove foglia senza che la Francia non voglia. E la volontà della Francia è di non avere altre presenze straniere all’infuori di lei o dei suoi stretti alleati, per cui l’Italia non ha grandi prospettive di poter inviare propri contingenti.
Ma dopo il Niger la rotta dei migranti passa per la Libia e qui l’Italia potrebbe essere facilitata in nome dei trascorsi coloniali. Ma il territorio libico a ridosso del Niger è il Fezzan ormai una terra di nessuno dove decine di gruppi armati si fronteggiano per il controllo di porzioni di territorio. Una situazione di anarchia che ha facilitato il proliferare di varie altre anomalie.
Non solo l’esplosione di ogni forma di traffico illegale, dal passaggio clandestino dei migranti al contrabbando di armi, droghe e oro, ma anche l’insediamento di gruppi armati islamisti che fanno da spalla a gruppi analoghi presenti in altri paesi del Sahel. Ed è proprio quest’ultimo aspetto che più preoccupa la Francia inducendola a perseguire scelte di politica estera che le assicurino non solo la stabilizzazione del Fezzan, ma anche la possibilità di avere una presenza nella regione. Fra i due governi oggi presenti in Libia, quello che ha più probabilità di prendere il controllo del Fezzan non è Al Serraj, ma Haftar che gode di maggiori simpatie da parte dei gruppi locali. Di qui la seconda ragione che spinge la Francia a stringere amicizia con Haftar in aperto contrasto con l’Italia che almeno nel Fezzan vorrebbe insediarcisi lei. Vecchie logiche coloniali avanzano.

Preso da: https://www.agoravox.it/Libia-il-volto-coloniale-di.html

LA LIBIA ED I PREDONI IMPERIALISTI (di Campo Antimperialista)

Confermato quel che sapevamo: Forze speciali italiane sono presenti da tempo sul terreno
Si parla di Sirte, ma si lotta per il petrolio


[Nella foto un mercenario della CIA in Libia]

[ 12 agosto 2016 ]

Siamo all’undicesimo giorno della campagna aerea americana su Sirte. Alcuni osservatori ritengono che l’assalto finale alla città sia imminente. Ad oggi, però, la resistenza dei combattenti dell’Isis, che da lungo tempo fronteggiano i miliziani di Misurata, braccio armato del governo Serraj, non è stata ancora piegata.
Ieri le forze di Misurata hanno conquistato il centro Ouagadougou, dove precedentemente si trovava una sorta di quartier generale delle truppe dello Stato islamico a Sirte. A simboleggiare la contraddittorietà della situazione libica, questo dettaglio sulla battaglia di ieri riferito oggi da la Repubblica: «“È l’ora della vittoria…Allah u Akbar”, hanno esultato le milizie su Twitter». Le milizie sono ovviamente quelle di Misurata, oggi appoggiate in pieno dai bombardamenti americani e sostenute da diversi paesi tra i quali l’Italia. Come non notare che anche la parte sconfitta avrebbe, nel caso, esultato allo stesso modo?

Ma veniamo al ruolo dell’Italia. Il 2 agosto scorso il governo italiano, mentre offriva agli USA la disponibilità delle basi (“qualora richieste”, questa l’ipocrita formula adoperata), smentiva recisamente la presenza di forze speciali italiane in Libia. Forze in realtà presenti da tempo al pari di quelle americane, inglesi e francesi.

Ieri è invece arrivata la conferma. Così ha scritto il governativo la Repubblica:
«Che forze speciali italiane fossero presenti in Libia era una notizia mai confermata dal governo, ma vera. Gli uomini dell’Esercito sono stati schierati prima a Tripoli per creare un nucleo di sicurezza per gli agenti dell’Aise, i servizi segreti, durante le missioni più delicate. Poi le forze speciali sarebbero passate da Benina, la base aerea del generale Haftar nell’Est del paese. E infine sono arrivati a Misurata. Dove sembra perfino che i militari britannici avessero chiesto ai libici di poter rimanere soli a lavorare con le brigate di Misurata, assieme agli americani che da giorni guidano gli attacchi aerei della Us Air Force e pilotano da terra i piccoli droni tattici che a Sirte servono a scoprire i nascondigli dell’Is. Una fonte della Difesa a Roma conferma che in Libia sono in azione nostre forze speciali, ma non vuole commentare nessuna delle operazioni in cui sono impegnate».

In realtà il governo non ha ufficialmente confermato, ma le affermazioni del presidente della Commissione Esteri del Senato, Pierferdinando Casini – «combattono il Daesh anche in nome e per conto nostro, così come gli americani impegnati su Sirte» – bastano e avanzano. Naturalmente i numeri sono piccoli, si parla di una trentina di uomini dei reparti speciali (Col Moschin e Gis), che secondo il Sole 24 Ore «agirebbero con le garanzie funzionali degli agenti segreti e sotto la guida diretta di Palazzo Chigi in base a un Dpcm in attuazione di un articolo del decreto missioni».

Siamo dunque di fronte ad una guerra che Renzi vorrebbe segreta. Che evidentemente non può esserlo, ma che deve rimanere tale almeno per il parlamento. Quello stesso parlamento che la ministra Boschi tiene in così alta considerazione, da affermare senza timore del ridicolo che una vittoria del no al referendum corrisponderebbe ad un suo inaccettabile oltraggio…

Ma lasciamo perdere, e concludiamo sul punto davvero decisivo. La guerra alla quale Renzi ha deciso di partecipare, cos’ha davvero in palio? Solo i gonzi possono pensare che si tratti soltanto dello scalpo del mini-califfato libico. Su questo punto già sappiamo come andrà. Sirte finirà nelle mani delle forze che la stanno attaccando, mentre i miliziani dello Stato islamico cercheranno di limitare i danni per riorganizzarsi in qualche altra parte del territorio libico.

La vera posta in gioco è in tutta evidenza un’altra. E’ il controllo della Libia e delle sue ricchezze, petrolio in primis. Non più tardi di ieri, i governi di Italia, Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Spagna e Germania hanno chiesto il passaggio di tutte le risorse petrolifere sotto il controllo del governo Serraj. In realtà, alcune di queste potenze (la Francia in special modo) stanno conducendo un gioco alquanto ambiguo. L’appoggio di Parigi al governo di Al Bayda (Cirenaica), che non riconosce quello di Tripoli, è infatti cosa nota.

E le parole del portavoce del governo della Cirenaica non lasciano spazio a troppe interpretazioni: «Il petrolio libico si può comprare o vendere solo tramite la compagnia nazionale Noc con sede a Bengasi». E ancora: «Non è consentito ad alcuna petroliera di entrare e caricare greggio nei terminal di Ras Lanuf e Sidra in quanto sono in mano a forze fuori legge». Ma chi sono questi anonimi “fuorilegge”? Sono le milizie di Ibrahim Jidran, il capo della cosiddetta “Guardia delle strutture petrolifere libiche“, con il quale il governo Serraj (quello insediato dalle potenze occidentali) si è recentemente accordato.

Il ginepraio di interessi tra i vari predoni imperialisti è dunque ben lungi dall’essere sciolto. Tutti contro l’Isis, certo. Tutti contro il popolo libico, da sfruttare (insieme alle sue risorse), da manipolare attraverso le tante milizie tribali. Ma al tempo stesso divisi dai tanti appetiti in gioco.

Di sicuro a loro interessa il petrolio. Il resto è secondario e potrà essere aggiustato con la più classica delle spartizioni. L’ex amministratore delegato dell’ENI, e oggi vicepresidente della Banca Rothschild ha fornito tempo fa al Corriere la sua ricetta. «Occorre finirla con la finzione della Libia», ha detto. Bisogna «favorire la nascita di un governo in Tripolitania, che faccia appello a forze straniere che lo aiutino a stare in piedi». Bisognerebbe poi spingere la Cirenaica ed il Fezzan a fare altrettanto. Nel frattempo – ed è quello che interessa all’ex uomo ENI – «ognuno gestirebbe le sue risorse energetiche».

Scaroni ha gli occhi puntati sulla Tripolitania, dove l’ENI ha i suoi impianti, ma la sua è una chiara adesione all’idea di tripartizione del paese, con la Tripolitania sotto la tutela italiana, la Cirenaica in mano agli inglesi ed il Fezzan ai francesi.

Che poi questo disegno di spartizione imperialista funzioni è tutto da vedere. Noi ci auguriamo proprio di no. Ma è importante tenere sempre a mente che il progetto – pur con le sue inevitabili contraddizioni – è esattamente questo.

No allo smembramento della Libia!
No all’aggressione USA-NATO!
No alla partecipazione italiana!

Libia, la guerra del petrolio e gli interessi dei Grandi

A cinque anni dalla caduta di Gheddafi vengono al pettine i nodi di un intervento voluto dai francesi e poi avallato dalla Nato e dagli Usa che hanno commesso un altro errore strategico: le frontiere libiche sono sprofondate per mille chilometri nel Sahara e il caos ha portato una destabilizzazione incontrollabile che con i jihadisti ha contagiato la Tunisia e i Paesi confinanti.

di Alberto Negri – 14 settembre 2016

«It’s the oil stupid», è il petrolio la posta in gioco in Libia, scrive Issandr Al Amrani, fondatore di The Arabist. E potremmo aggiungere anche il gas: il 60% del carburante pompato dall’Eni- ogni giorno 35 milioni di metri cubi – alimenta le centrali elettriche locali, sia in Tripolitania che in Cirenaica. In poche parole è la produzione dell’Eni che accende la luce ai libici.
Nel momento in cui si mandano un centinaio di medici a Misurata protetti da 200 parà della Folgore, questo aspetto di vitale importanza per la sopravvivenza dei libici non va sottovalutato. Anche il generale Khalifa Haftar e il governo di Tobruk forse dovrebbero pagare la bolletta ma hanno fatto una scelta diversa, ovvero impadronirsi dei principali terminali petroliferi della Cirenaica fino a Ras Lanuf, a ridosso della linea del fronte dove nella Sirte comincia la battaglia al Califfato, quasi passata in secondo piano davanti alle tensioni crescenti tra le fazioni libiche.
La guerra in Libia del 2011 per abbattere il Colonnello Gheddafi, come quella in Siria per far fuori Assad, si è trasformata quasi subito in un conflitto per procura con forti connotati economici e strategici. L’intervento francese a favore dei ribelli di Bengasi accompagnato da quello della Nato ha diviso il Paese tra le due regioni principali e l’unità libica, un eredità coloniale italiana, di fatto non si è più ricostituita.  In pratica ci sono due situazioni critiche derivanti dall’attacco alla Mezzaluna petrolifera libica condotto dal generale Khalifa Haftar, l’uomo forte di Tobruk e della Cirenaica. Una è lo scontro tra Tripoli, il governo internazionalmente riconosciuto, e quello di Tobruk; l’altra è quella meno visibile degli interessi contrastanti delle potenze in campo. Nonostante le notizie diffuse dalla stampa, Francia, Russia ed Egitto continuano ad appoggiare Haftar che conquistando porti e terminali minaccia anche gli interessi italiani. Gli americani bombardando l’Isis rafforzano Tripoli e Misurata contro Haftar, quindi, con qualche sfumatura, si schierano contro la Francia, l’Egitto e la Russia, con implicazioni anche sul fronte siriano. L’Italia, appoggiando Misurata e gli Stati Uniti, prende posizione contro l’Isis ma anche nei confronti delle milizie di Haftar, appoggiate dal Cairo e fino a ieri da Parigi.
A cinque anni dalla caduta di Gheddafi vengono al pettine i nodi di un intervento voluto dai francesi e poi avallato dalla Nato e dagli Usa che hanno commesso un altro errore strategico: le frontiere libiche sono sprofondate per mille chilometri nel Sahara e il caos ha portato una destabilizzazione incontrollabile che con i jihadisti ha contagiato la Tunisia e i Paesi confinanti. L’Italia, come ha ammesso l’ex ministro degli Esteri Franco Frattini, fu costretta allora a partecipare ai raid dell’Alleanza perché i terminali dell’Eni risultavano tra i bersagli da colpire. Ora rimediare è complicato e la divisione tra Tripolitania e Cirenaica si è fatta sempre più aspra. In sostanza questa guerra per procura è interna al fronte occidentale, oltre che a quello arabo, e per l’Italia è un conflitto ultrasensibile perché dopo avere perso in Libia miliardi di euro, sfumati con gli accordi firmati con Gheddafi, si trova sull’altra sponda un trampolino di lancio per i migranti.
La comunità internazionale e anche la Francia ufficialmente si sono schierati contro Haftar ma il bottino libico, 140-150 miliardi di dollari, è troppo attraente per non essere diffidenti. Del bottino petrolifero la Cirenaica costituisce la parte più ricca perché custodisce circa il 70-80% delle riserve di oro nero. Non solo: la sua proiezione verso il Sahara la rende strategica per l’influenza nella fascia sub-saheliana dove i francesi sono attori di primo piano mentre l’Egitto è fortemente interessato a estendere il suo controllo in questa area di frontiera per evidenti ragioni economiche e di sicurezza. Prima della caduta di Gheddafi un milione di egiziani lavorava in Libia.  Quando si stava disgregando la Libia italiana lo stesso monarca egiziano Farouk nel 1944 rivendicò la Cirenaica: «Non mi risulta che vi sia mai appartenuta». fu la secca replica di Churchill in un burrascoso faccia a faccia con Farouk al Cairo. Oggi forse dovrebbero essere gli americani a pronunciare le stesse parole. Ma dopo quanto è accaduto negli ultimi anni tra il Maghreb e il Medio Oriente nessuno si fa illusioni. La Libia è una lezione sui tempi che corrono: concetti come “alleato” e “nemico” non spiegano più la realtà internazionale. E l’Italia nel caso libico ha avuto la prova di quanto gli alleati siano più concorrenti che amici.
Fonte: Il Sole 24 Ore
Preso da: http://www.lintellettualedissidente.it/rassegna-stampa/libia-la-guerra-del-petrolio-e-gli-interessi-dei-grandi/

Libia, una guerra che vale 130 miliardi: altro che esportatori di democrazia!

8 settembre 2016

Guerra in Libia, tutti a farneticare su uomini e mezzi da inviare. Ma il punto è: perché bisogna intervenire? Ecco quali sono le vere ragioni dietro l’intervento italiano, come rivela su Facebook Marcello Foa, giornalista di scuola montanelliana, ora Ceo di Corriere del Ticino/mediaTI.
Ecco la vera ragione della guerra in Libia.
L’Italia si prepara a mandare 5.000 uomini in Libia su richiesta di Washington per “combattere l’Isis”. Ma siamo proprio sicuri che sia questo il reale obiettivo?

No, infatti, caro lettore, il motivo di questa guerra è un altro e, avrete immaginato, è… ilpetrolio.
Come spiega l’ottimo Alberto Negri sul Sole 24 Ore:
“Siamo davanti a un regolamento di conti, una spartizione della torta tra gli attori esterni e i due poli libici principali, Tripoli e Tobruk, che hanno due canali paralleli e concorrenti per l’export di petrolio”.
La Libia, continua Negri:
“È un bottino da 130 miliardi di dollari subito e tre-quattro volte tanto nel caso di un ipotetico Stato libico. Qui si possono liberare alcune delle più importanti risorse dell’Africa: il 38% del petrolio del continente, l’11% dei consumi europei. È un greggio di qualità, a basso costo, che fa gola alle compagnie in tempi di magra. In questo momento a estrarre barili e gas dalla Tripolitania è soltanto l’Eni. Una posizione, conquistata manovrando tra fazioni e mercenari, che agli occhi dei nostri alleati deve finire e, se possibile, con il nostro contributo militare”.

GUERRA IN LIBIA, GLI SCENARI FUTURI
Probabilmente, una volta stabilizzato, il paese sarà diviso tra Francia, Gran Bretagna e, auspicabilmente Italia, mentre gli Stati Uniti vigileranno dall’alto.
L’Italia, che era ben posizionata con Gheddafi, e che è riuscita a cavarsela anche negli ultimi anni, ha molto da perdere e poco da guadagnare ad assumere un ruolo militare di primo piano nella sempre più probabile guerra.
Di certo, ancora una volta non ci dicono tutta la verità. Ancora una volta la lotta al terrorismo è, al più, una concausa e viene usato come pretesto per realizzare altri obiettivi, economici come sempre. E come sempre, solo pochi giornalisti avranno la lucidità e l’onestà intellettuale di raccontare la verità. Alberto Negri è uno di questi.
Nella giornata di ieri gli americani hanno bombardato obiettivi dell’Isis a Sirte, in Libia. Gli aerei statunitensi sono partiti dalla base italiana di Sigonella.

Ecco perché hanno ammazzato Gheddafi. Le email Usa che non vi dicono

16 agosto 2016

Il 31 dicembre scorso, su ordine di un tribunale, sono state pubblicate 3000 email tratte dalla corrispondenza personale di Hillary Clinton, transitate sui suoi server di posta privati anziché quelli istituzionali, mentre era Segretario di Stato.
Un problema che rischia di minare seriamente la sua corsa alla Casa Bianca. I giornali parlano di questo caso in maniera generale, senza entrare nel dettaglio, ma alcune di queste email delineano con chiarezza il quadro geopolitico ed economico che portò la Francia e il Regno Unito alla decisione di rovesciare un regime stabile e tutto sommato amico dell’Italia, come laLibia di Gheddafi. Ovviamente non saranno i media mainstream generalisti a raccontarvelo, né quelli italiani né quelli di questa Europa che in quanto a propaganda non è seconda a nessuno, tantomeno a quel Putin spesso preso a modello negativo. A raccontarvelo non poteva essere che un blog, questa voltaScenari Economici di Antonio Rinaldi e del suo team, a cui vanno i complimenti.


“Due terzi delle concessioni petrolifere nel 2011 erano dell’ENI, che aveva investito somme considerevoli in infrastrutture e impianti di estrazione, trattamento e stoccaggio. Ricordiamo che la Libia è il maggior paese produttore africano, e che l’Italia era la principale destinazione del gas e del petrolio libici.
La email UNCLASSIFIED U.S. Department of State Case No. F-2014-20439 Doc No. C05779612 Date: 12/31/2015 inviata il 2 aprile 2011 dal funzionario Sidney Blumenthal (stretto collaboratore prima di Bill Clinton e poi di Hillary) a Hillary Clinton, dall’eloquente titolo “France’s client & Qaddafi’s gold”, racconta i retroscena dell’intervento franco-inglese.

  • La Francia ha chiari interessi economici in gioco nell’attacco alla Libia.
  • Il governo francese ha organizzato le fazioni anti-Gheddafi alimentando inizialmente i capi golpisti con armi, denaro, addestratori delle milizie (anche sospettate di legami con Al-Qaeda), intelligence e forze speciali al suolo.
  • Le motivazioni dell’azione di Sarkozy sono soprattutto economiche e geopolitiche, che il funzionario USA  riassume in 5 punti:
    • Il desiderio di Sarkozy di ottenere una quota maggiore della produzione di petrolio della Libia (a danno dell’Italia, NdR),
    • Aumentare l’influenza della Francia in Nord Africa
    • Migliorare la posizione politica interna di Sarkozy
    • Dare ai militari francesi un’opportunità per riasserire la sua posizione di potenza mondiale
    • Rispondere alla preoccupazione dei suoi consiglieri circa i piani di Gheddafi per soppiantare la Francia come potenza dominante nell’Africa Francofona.

Ma la stessa mail illustra un altro pezzo dello scenario dietro all’attacco franco-inglese, se possibile ancora più stupefacente, anche se alcune notizie in merito circolarono già all’epoca.

La Motivazione Principale Dell’attacco Militare Francese Fu Il Progetto Di Gheddafi Di Soppiantare Il Franco Francese Africano (CFA) Con Una Nuova Valuta Pan Africana.

In sintesi Blumenthal dice:

  • Le grosse riserve d’oro e argento di Gheddafi, stimate in 143 tonnellate d’oro e una quantità simile di argento, pongono una seria minaccia al Franco francese CFA, la principale valuta africana.
  • L’oro accumulato dalla Libia doveva essere usato per stabilire una valuta pan-africana basata sul dinaro d’oro libico.
  • Questo piano doveva dare ai paesi dell’Africa Francofona un’alternativa al franco francese CFA.
  • La preoccupazione principale da parte francese è che la Libia porti il Nord Africa all’indipendenza economica con la nuova valuta pan-africana.
  • L’intelligence francese scoprì un piano libico per competere col franco CFA subito dopo l’inizio della ribellione, spingendo Sarkozy a entrare in guerra direttamente e bloccare Gheddafi con l’azione militare.

Dalla Libia i finti missili su Lampedusa prima dei migranti veri

Ricordate quando Reagan, 1986, bombardò Gheddafi? Probabilmente no. Allora fu Bettino Craxi a fare la spia avvertendo Gheddafi dell’arrivo dei caccia Usa che lo volevano uccidere. Ed ecco l’invenzione Usa sul missile libico lanciato contro Lampedusa, provocazione Usa per creare caos politico in casa nostra.
Craxi Reagan cop
La storia maestra di vita? A volte capita.
Ricordate quando Reagan, 1986, bombardò Gheddafi? Probabilmente no. Allora fu Bettino Craxi a fare la spia avvertendo dell’arrivo dei caccia Usa che lo volevano uccidere. La rivelazione fu fatta da Giulio Andreotti, nel 2008. Tanti illustri scomparsi. Ma il presidente-attore Usa allora non gradì affatto.
Ed ecco, pochi giorni dopo il colpo di risposta: i missili, uno o più, si discusse allora, lanciati dalla Libia contro Lampedusa e per puro miracolo finiti in mare. Più che missili, delle balle. Invenzione americana usata per create scompiglio tra le forze politiche di casa che sulla questione Libia si stavano lacerando, è la rivelazione ultima.

La prima rivelazione nel 2008. Prima conferma ufficiale grazie a due protagonisti della crisi, il senatore a vita Giulio Andreotti, allora ministro degli Esteri del secondo governo Craxi, e il capo della diplomazia libica Abdel-Rahman Shalgam, all’epoca ambasciatore a Roma.
Raid Usa per punire Gheddafi dell’attentato alla discoteca La Belle di Berlino dell’aprile 1986, ( anche quello falso), con tre soldati Usa. Bombardieri F-111 decollati dalle basi di Lakenheat e Upper Heyford, in Gran Bretagna, e aerei della Sesta Flotta di stanza nel Mediterraneo. Furono uccise una ventina di persone, fra le quali la figlia adottiva del colonnello.
In quell’occasione gli Stati Uniti utilizzarono la base di Lampedusa, «ma contro la volontà del governo italiano, perché Roma era contraria all’uso dei cieli e dei mari nazionali per l’aggressione», dichiara Adreotti. La risposta libica accreditata allora  fu il lancio di due missili Scud su Lampedusa, smentita oggi.
Falsi missili e pura disinformazione, con i nemici Libia e Usa a condividere la bugia reciprocamente utile. Ne ha parlato giorni fa a Roma, Ahmed Maetig, vice premier libico dell’ancora incerto governo Saraj messo su dall’Onu. Ieri come oggi, con un seguito più recente.
Nel 2011 la partecipazione italiana alla missione Nato contro la Libia di Gheddafi fu sollecitata per evitare che gli alleati-concorrenti petroliferi di ieri e di oggi, bombardassero i terminali petroliferi dell’Eni. Un percorso infido da sempre quello dell’Italia in Libia.

Preso da: http://www.remocontro.it/2016/05/31/dalla-libia-i-finti-missili-su-lampedusa-prima-dei-migranti-veri/

I predatori della Libia

11 aprile 2016, da Manlio Dinucci 


«La Libia deve tornare a essere un paese stabile e solido», twitta da Washington il premier Renzi, assicurando il massimo sostegno al «premier Sarraj, finalmente a Tripoli». Ci stanno pensando a Washington, Parigi, Londra e Roma gli stessi che, dopo aver destabilizzato e frantumato con la guerra lo Stato libico, vanno a raccogliere i cocci con la «missione di assistenza internazionale alla Libia».
L’idea che hanno traspare attraverso autorevoli voci. Paolo Scaroni, che a capo dell’Eni ha manovrato in Libia tra fazioni e mercenari ed è oggi vicepresidente della Banca Rothschild, dichiara al Corriere della Sera che «occorre finirla con la finzione della Libia», «paese inventato» dal colonialismo italiano. Si deve «favorire la nascita di un governo in Tripolitania, che faccia appello a forze straniere che lo aiutino a stare in piedi», spingendo Cirenaica e Fezzan a creare propri governi regionali, eventualmente con l’obiettivo di federarsi nel lungo periodo. Intanto «ognuno gestirebbe le sue fonti energetiche», presenti in Tripolitania e Cirenaica.

Analoga l’idea esposta su Avvenire da Ernesto Preziosi, deputato Pd di area cattolica: «Formare una Unione libica di tre Stati – Cirenaica, Tripolitania e Fezzan – che hanno in comune la Comunità del petrolio e del gas», sostenuta da «una forza militare europea ad hoc». È la vecchia politica del colonialismo ottocentesco, aggiornata in funzione neocoloniale dalla strategia Usa/Nato, che ha demolito interi Stati nazionali (Jugoslavia, Libia) e frazionato altri (Iraq, Siria), per controllare i loro territori e le loro risorse.
La Libia possiede quasi il 40% del petrolio africano, prezioso per l’alta qualità e il basso costo di estrazione, e grosse riserve di gas naturale, dal cui sfruttamento le multinazionali statunitensi ed europee possono ricavare oggi profitti di gran lunga superiori a quelli che ottenevano prima dallo Stato libico. Per di più, eliminando lo Stato nazionale e trattando separatamente con gruppi al potere in Tripolitania e Cirenaica, possono ottenere la privatizzazione delle riserve energetiche statali e quindi il loro diretto controllo.
Oltre che dell’oro nero, le multinazionali statunitensi ed europee vogliono impadronirsi dell’oro bianco: l’immensa riserva di acqua fossile della falda nubiana, che si estende sotto Libia, Egitto, Sudan e Ciad. Quali possibilità essa offra lo aveva dimostrato lo Stato libico, costruendo acquedotti che trasportavano acqua potabile e per l’irrigazione, milioni di metri cubi al giorno estratti da 1300 pozzi nel deserto, per 1600 km fino alle città costiere, rendendo fertili terre desertiche.
Sbarcando in Libia con la motivazione ufficiale di assisterla e liberarla dalla presenza dell’Isis, gli Usa e le maggiori potenze europee possono anche riaprire le loro basi militari, chiuse da Gheddafi nel 1970, in una importante posizione geostrategica all’intersezione tra Mediterraneo, Africa e Medio Oriente.
Infine, con la «missione di assistenza alla Libia», gli Usa e le maggiori potenze europee si spartiscono il bottino della più grande rapina del secolo: 150 miliardi di dollari di fondi sovrani libici confiscati nel 2011, che potrebbero quadruplicarsi se l’export energetico libico tornasse ai livelli precedenti.
I fondi sovrani, all’epoca di Gheddafi investiti per creare una moneta e organismi finanziari autonomi dell’Unione Africana (ragione per cui fu deciso di abbattere Gheddafi, come risulta dalle mail di Hillary Clinton), saranno usati per smantellare ciò che rimane dello Stato libico. Stato «mai esistito» perché in Libia c’era solo una «moltitudine di tribù», dichiara Giorgio Napolitano, convinto di essere al Senato del Regno d’Italia.
Fonte: Il Manifesto

Preso da: http://altrenotizie.org/pescati-nella-rete/6952-i-predatori-della-libia.html

Gad Lerner, la Libia e il “giornalismo”: da fan dei crimini della NATO nel 2011 a “pacifista”

Ipse dixit. Gad Lerner: nel 2011 fan dei ribelli libici e delle bombe Nato. Per la serie: “Tanto nessuno ricorda, quindi non devo nemmeno scusarmi”
Ecco alcuni “ieri e oggi” del conduttore.
Il 31 marzo 2016 scrive fra l’altro : «(…) inevitabile è un impegno dell’Italia nel ginepraio nordafricano (…) Garantire la continuità del rifornimento energetico attraverso il gasdotto sottomarino che da Mellitah raggiunge Gela. (…) Evitare che il contagio della guerra civile possa minare la precaria stabilità di un paese come l’Algeria (…) E infine scongiurare il monopolio territoriale dell’Isis sulle coste nordafricane (…)»
Il 2 giugno 2015 scandalizzato scriveva  che «l’Eni in Libia è sotto protezione di una fazione, Fajr, il cui comandante non smentisce l’alleanza con fazioni jihadiste vicine all’Isis».
 
Terrificante. Ma quale posizione manifestava lo stesso Lerner sulla Libia nel 2011, in tutti i modi consentiti e non certo solo sul blog? A poche ore dall’intervento della Nato, che all’Isis ha fatto da forza aerea, demonizzava chi non era d’accordo con l’intervento : «(…) nelle ore cruciali che precedono una decisione internazionale d’iniziativa armata in Libia -e speriamo che arrivi prima della caduta di Bengasi nelle mani di Gheddafi- vedo crescere un “pacifismo di destra” venato di sarcasmo e isolazionismo. E’ significativo che Lerner parli di “pacifismo di destra”, tanto per denigrare qualunque persona – pochi in effetti – si opponesse a quella guerra assurda e devastante. (…) Il pacifismo di destra che si è contrapposto all’impegno lodevole della Nato, di Obama, di Cameron, di Sarkozy, seguiti controvoglia da Berlusconi mentre una Merkel sempre più irresoluta si asteneva come al solito».
 
Cinque mesi di bombe lo convincevano ulteriormente! Il 23 agosto 2011, eccolo commentare la caduta di Tripoli riuscendo a sbagliare ogni previsione : «…(la guerra) si è innestata su una sollevazione popolare autentica (…) Abbiamo sentito opporre argomenti uno dopo l’altro per negare che bisognasse impegnarsi dalla parte degli insorti di Bengasi per consentire la deposizione di Gheddafi. Il rais pagava troppo bene i suoi mercenari per cui era invincibile. Ne sarebbe scaturita una secessione della Cirenaica indipendente dalla Tripolitania. Il ritorno alle guerre tribali d’epoca precoloniale. L’instaurazione di un regime islamico qaedista. L’esodo (biblico!) di profughi a centinaia di migliaia. Tutte balle. Il pacifismo di destra che si è contrapposto all’impegno lodevole della Nato, di Obama, di Cameron, di Sarkozy, seguiti controvoglia da Berlusconi mentre una Merkel sempre più irresoluta si asteneva come al solito».
Sollevazione popolare autentica e insorti di Bengasi (in realtà criminali e jihadisti che hanno rovinato non solo la Libia). Mercenari di Gheddafi (accusa smentita ex post da tutti). Niente pericolo di un regime islamico (!). Niente esodo di profughi (!).
 
Tutte balle… diceva lui. E non si è mai scusato. Neanche con i pacifisti non di destra. Pochi, ma c’erano e ci sono. Anche se non possono far nulla contro chi, per miopia assoluta o interessi di parte, favorisce guerre diaboliche.

 

La Libia è una torta da oltre 130 miliardi di dollari

21 marzo 2016

di Valter Vecellio
La Libia è una torta da 130 miliardi di dollari subito, e almeno 34 volte di più se l’attuale situazione si dovesse mai in qualche modo “normalizzare”. Per capire qualcosa di quello che accade in quell’ormai non paese si deve cercare di capire le mosse dell’ENI…
Eni1
Ce lo stanno dicendo praticamente tutti i giorni, da tempo; da settimane, da mesi: bisogna intervenire in Libia. Cosa significa “intervenire” non è ben chiaro, ma bisogna “intervenire”.

Ora per “intervenire” ci sono due soli modi: si mandano delle truppe, dei militari, si va a combattere a tutti gli effetti una guerra. Si va come si è andati in Somalia, in Irak, in Afghanistan… Si va ad uccidere, e si va ad essere uccisi. Si va a combattere, come già combattono i francesi in tutti quei paesi dell’Africa francofona: dal Ciad al Mali, dal Burkina Fasu; come già sono presenti in Libia, e come sono già presenti, in quello che un tempo era “il bel suol d’amore”, inglesi e statunitensi. Avendo ben chiaro che la Libia di oggi è un verminaio nel quale si rischia di restare impigliati più e peggio che in Irak e in Afghanistan.
Italy Eni
Chi dice che bisogna “intervenire” dice questo, e questo deve dire: deve avere il coraggio di dirci che la Libia costituisce una irresistibile torta che tanti si vogliono mangiare. Stiamo parlando di un non paese che galleggia in un mare di petrolio. Un non paese con due poli interni principali costituiti da Tripoli e Tobruk, spalleggiati da una quantità di poteri reali esterni in lotta e competizione tra loro. Per dire: il 38 per cento del petrolio africano passa dalla Libia, e questo 38 per cento costituisce l’11 per cento dei consumi europei. Questo petrolio dagli esperti viene ritenuto un greggio di ottima qualità, costa relativamente poco, fa gola alle grandi compagnie petrolifere; per quel che riguarda la Tripolitania è praticamente appannaggio dell’ENI. Un appannaggio che l’ENI si garantisce manovrando in modo spregiudicato tra fazioni, tribù e sceiccati; e che francesi, inglesi, americani naturalmente non vedono con favore. Vorrebbero esserci loro, a fare quello che fa l’ENI.
Libia-Sicilia
La Libia costituisce una “torta” da 130 miliardi di dollari subito, e almeno 34 volte di più se l’attuale situazione si dovesse mai in qualche modo “normalizzare”. Per capire qualcosa di quello che accade in quell’ormai non paese si deve cercare di capire le mosse dell’ENI in Tripolitania, della BP, della Shell, della Total in Cirenaica e nel Fezzan. Della partita fa parte anche la Russia, che opera attraverso l’Egitto di Al Sisi. Buona parte delle armi che circolano in Libia, vengono da Mosca e Parigi. Nei progetti, e nei sogni delle varie cancellerie europee e mondiali, la Francia che già ha interessi consolidati nell’Africa sub sahariana, dovrebbe fare il guardiano nel Fezzan, la regione meridionale della Libia. Al Regno Unito fa gola la Cirenaica, e in questo modo terrebbe a freno anche le mire russo-egiziane, l’Italia dovrebbe in qualche modo continuare a operare in Tripolitania; gli Stati Uniti – questi Stati Uniti più confusi e indecisi che mai – si candidano a supervisori del tutto.
Questi bei piani naturalmente sono realizzati a tavolino, non fanno poi i conti con la realtà: le gelosie, le rivalità, gli appetiti tribali; gli interessi dell’Egitto, che non sono quelli dei paesi europei, i fanatici islamisti, che giocano anche loro una partita, dal Qatar arriva un quotidiano fiume di denaro a sostegno dei gruppi estremisti e terroristici. Insomma, è bene sapere che la sbandierata lotta al califfato dell’ISIS e ai terroristi è solo un aspetto, forse il più appariscente, ma neppure il più importante, della guerra che si sta combattendo in Libia. Gli interessi occidentali mascherati da obiettivi comuni, in realtà sono più che mai divergenti. Si prepara, e probabilmente già si combatte, una guerra dove in campo ci sono finti amici e alleati, finti avversari e nemici.
C’è poi un altro modo di “intervenire”. Si chiama “intelligence”. Ne parlano in tanti, però oltre che invocarla dovrebbero spiegare cosa significa “intelligence”, cosa comporta. Vuol dire niente più e niente meno che “operazioni sporche”. Persone specializzate in quel tipo di guerra che si fa e non si ammette, e che consiste nell’eliminazione di nemici o ritenuti tali. Quel tipo di cose che leggiamo nelle spystories e che vediamo nei film di spionaggio. Solo che non si tratta di romanzi o di film; sono operazioni meticolosamente studiate, risultato di informazioni spesso raccolte illegalmente, corrompendo e applicando la legge: il nemico del mio nemico è mio amico. Ecco, questa è l’intelligence. O questo o non è. Se si applica la vecchia regola di seguire il denaro, forse si comincia a capire qualcosa di quello che si fa senza dire, di quello che si dice senza fare.
Ora rispondiamo pure: vogliamo, dobbiamo, possiamo “intervenire” in Libia?
(Articolo già su La Voce di New York il 17 marzo)

ECCO LE VERI RAGIONI DELLA GUERRA IN LIBIA

8 marzo 2016

DI MARCELLO FOA –
L’Italia si preparava nel 2016, a mandare 5.000 uomini in Libia su richiesta di Washington per “combattere l’Isis”. Ma siamo proprio sicuri che sia questo il reale obiettivo?
No, infatti, caro lettore, il motivo di questa guerra è un altro e, avrete immaginato, è… il petrolio. Come spiega l’ottimo Alberto Negri sul Sole 24 Ore siamo davanti ad un “regolamento di conti”, una “spartizione della torta tra gli attori esterni e i due poli libici principali, Tripoli e Tobruk, che hanno due canali paralleli e concorrenti per l’export di petrolio”. La Libia, continua Negri, “è un bottino da 130 miliardi di dollari subito e tre-quattro volte tanto nel caso di un ipotetico Stato libico.

Qui si possono liberare alcune delle più importanti risorse dell’Africa: il 38% del petrolio del continente, l’11% dei consumi europei. È un greggio di qualità, a basso costo, che fa gola alle compagnie in tempi di magra. In questo momento a estrarre barili e gas dalla Tripolitania è soltanto l’Eni: una posizione, conquistata manovrando tra fazioni e mercenari, che agli occhi dei nostri alleati deve finire e, se possibile, con il nostro contributo militare”.
Probabilmente, una volta stabilizzato, il paese sarà diviso tra Francia, Gran Bretagna e, auspicabilmente Italia, mentre gli Stati Uniti vigileranno dall’alto.
L’Italia, che era ben posizionata con Gheddafi, e che è riuscita a cavarsela anche negli ultimi anni, ha molto da perdere e poco da guadagnare ad assumere un ruolo militare di primo piano nella sempre più probabile guerra.
Di certo, ancora una volta non ci dicono tutta la verità. Ancora una volta la lotta al terrorismo è, al più, una concausa e viene usato come pretesto per realizzare altri obiettivi, economici come sempre. E come sempre, solo pochi giornalisti avranno la lucidità e l’onestà intellettuale di raccontare la verità. Alberto Negri è uno di questi.

Qui sotto potete leggere il suo articolo.
Marcello Foa

La grande spartizione della Libia: un bottino da almeno 130 miliardi

Quando si incontreranno martedì al palazzo Ducale di Venezia, Matteo Renzi e François Hollande guardandosi negli occhi dovrebbero farsi una domanda: per quali ragioni facciamo la guerra in Libia?
La risposta più ovvia – il Califfato – è quella di comodo. La guerra di Libia è partita nel 2011 con un intervento francese, britannico e americano che con la fine di Gheddafi è diventato conflitto tra le tribù, le milizie e dentro l’Islam, che però è sempre rimasto una guerra di interessi geopolitici ed economici. L’esito non è stato l’avvento della democrazia ma è sintetizzato in un dato: la Libia era al primo posto in Africa nell’indice Onu dello sviluppo umano, adesso è uno stato fallito.

La guerra è in realtà un regolamento di conti e una spartizione della torta tra gli attori esterni e i due poli libici principali, Tripoli e Tobruk, che hanno due canali paralleli e concorrenti per l’export di petrolio.

Qui si possono liberare alcune delle più importanti risorse dell’Africa: il 38% del petrolio del continente, l’11% dei consumi europei. È un greggio di qualità, a basso costo, che fa gola alle compagnie in tempi di magra. In questo momento a estrarre barili e gas dalla Tripolitania è soltanto l’Eni: una posizione, conquistata manovrando tra fazioni e mercenari, che agli occhi dei nostri alleati deve finire e, se possibile, con il nostro contributo militare.
Per loro, anche se l’Italia ha perso in Libia 5 miliardi di commesse, stiamo già accantonando risorse per un contingente virtuale in barili di oro nero. Non è così naturalmente, ma “deve” essere così: per questo l’ambasciatore Usa azzarda a chiederci spudoratamente 5mila uomini. La dichiarazione di John Phillips, addolcita dalla promessa di un comando militare all’Italia, sottolinea la nostra irrilevanza.
La Libia è un bottino da 130 miliardi di dollari subito e tre-quattro volte tanto nel caso che un ipotetico Stato libico, magari confederale e diviso per zone di influenza, tornasse a esportare come ai tempi di Gheddafi. Sono stime che sommano la produzione di petrolio con le riserve della Banca centrale e del Fondo sovrano libico che sta a Londra dove ha studiato per anni il prigioniero di Zintane, Seif Islam, il figlio di Gheddafi, un tempo gradito ospite di Buckingham Palace al pari di tutti gli arabi che hanno il cuore nella Mezzaluna e il portafoglio nella City. Oltre alla Bp e alla Shell in Cirenaica – dove peraltro ci sono consorzi francesi, americani tedeschi e cinesi – gli inglesi hanno da difendere l’asset finanziario dei petrodollari.
Anche i russi, estromessi nel 2011 perché contrari ai bombardamenti, vogliono dire la loro: lo faranno attraverso l’Egitto del generale Al Sisi al quale vendono armi a tutto spiano insieme alla Francia. Al Sisi considera la Cirenaica una storica provincia egiziana, alla stregua di re Faruk che la reclamava nel 1943 a Churchill: «Non mi risulta», fu allora la secca risposta del premier britannico. Ma ce n’è per tutti gli appetiti: questo è il fascino tenebroso della guerra libica.
Il bottino libico, nell’unico piano esistente, deve tornare sui mercati, accompagnato da un sistema di sicurezza regionale che, ignorando Tunisia e Algeria, farà della Francia il guardiano del Sahel nel Fezzan, della Gran Bretagna quello della Cirenaica, tenendo a bada le ambizioni dell’Egitto, e dell’Italia quello della Tripolitania. Agli americani la supervisione strategica.
Ai libici, divisi e frammentati, messi insieme in un finto governo di “non unità nazionale”, il piano non piacerà perché hanno fatto la guerra a Gheddafi e tra loro proprio per spartirsi la torta energetica senza elargire “cagnotte” agli stranieri e finire sotto tutela. E insieme ai litigi libici ci sono le trame delle potenze arabe e musulmane. Sono “i pompieri incendiari” che sponsorizzano le loro fazioni favorite: l’Egitto manovra il generale Khalifa Haftar, il Qatar seduce con dollari sonanti gli islamisti radicali a Tripoli, gli Emirati si sono comprati il precedente mediatore dell’Onu Bernardino Leòn per appoggiare Tobruk; senza contare la Turchia, che dalla Siria ha rispedito i jihadisti libici a fare la guerra santa nella Sirte.
La lotta al Califfato è solo un aspetto del conflitto, anzi l’Isis si è inserito proprio quando si infiammava la guerra per il petrolio. Ma gli interessi occidentali, mascherati da obiettivi comuni, sono divergenti dall’inizio quando il presidente francese Nicolas Sarkozy attaccò Gheddafi senza neppure farci una telefonata. Oggi sappiamo i retroscena. In una mail inviata a Hillary Clinton e datata 2 aprile 2011, il funzionario Sidney Blumenthal rivela che Gheddafi intendeva sostituire il Franco Cfa, utilizzato in 14 ex colonie, con un’altra moneta panafricana. Lo scopo era rendere l’Africa francese indipendente da Parigi: le ex colonie hanno il 65% delle riserve depositate a Parigi. Poi naturalmente c’era anche il petrolio della Cirenaica per la Total. È così che prepariamo la guerra: in compagnia di finti amici-concorrenti-rivali, esattamente come faceva la repubblica dei Dogi.
Alberto Negri
Fonte: www.ilsole24ore.com

Preso da: http://www.informarexresistere.fr/2016/03/08/ecco-le-veri-ragioni-della-guerra-in-libia/