Lo stupro di una donna non ebrea è bottino di guerra.

Lo stupro di una donna non ebrea è bottino di guerra.

Copertina: Shmuel Eliyahu, il rabbino capo di Safad (al centro), ha giustificato la violenza sulle donne non ebree e il massacro di civili palestinesi durante la guerra. (Mercaz HaRav)

David Sheen (*), The Electronic Intifada 1 settembre 2017

É emerso che un importante rabbino israeliano abbia sostenuto il genocidio a Gaza affermando  inoltre che i soldati possono stuprare durante la guerra.

Shmuel Eliyahu, capo rabbino di Safad nel presente d’Israele, approvò lo stupro da parte delle forze armate in un articolo del 2002 che è passato in gran parte inosservato.

Scrivendo su Kipa.co.il, un popolare sito di lingua ebraica per gli ebrei religiosi, Eliyahu ha sostenuto che i soldati israeliani perderebbero la loro motivazione a vincere la guerra se non autorizzati a violentare le donne non ebree.

I commenti furono fatti cinque anni prima che Eliyahu raccomandasse a Israele di usare una forza massiccia a Gaza.

Nel 2007 ha affermato che Israele “deve uccidere 100.000, anche un milione” di persone a Gaza se fosse necessario per impedire ai combattenti palestinesi della resistenza di sparare i razzi.

I commenti di Eliyahu del 2002 sulle violenze sono stati evidenziati in un recente messaggio di Facebook di Ruhama Weiss, un accademico di Gerusalemme.

“Non indebolire il suo spirito”

In una rubrica chiamata “Chiedi al rabbino”, Eliyahu suggerì che una legge biblica autorizzerebbe la violenza sessuale in determinate circostanze. Stava rispondendo a una domanda – apparentemente da parte di uno dei lettori del sito – sul fatto che le donne possano essere considerate come “bottino di guerra”.

Secondo Eliyahu, un soldato israeliano dovrebbe essere soggetto a pochi vincoli, se necessario, quando combatte una guerra.

“Ora è il momento di combattere e non si dovrebbe predicargli  moralità”, scrisse. “Fallo a casa, prima della guerra, e non nel bel mezzo della guerra. Non indebolire il suo spirito. Se gli proibisci una donna bellissima dalla quale è affascinato, lui penserà  a lei e probabilmente si arriverà al punto in cui  il popolo ebraico sarà sconfitto. Cosa si guadagna da questo?”

Eliyahu interpretava una scrittura biblica con questo significato “se brucia in te, prendi una bella donna”, giustificando così la violenza durante la guerra.

Tale punto di vista è in contrasto con il diritto internazionale. Il Tribunale penale internazionale ha confermato che l’uso di stupri nel conflitto armato è un crimine di guerra.

Dopo aver giustificato la violenza sulla donna, Eliyahu continua a incolpare la vittima, chiedendosi se “sia stata creata apposta per farsi desiderare e poter incriminare il soldato”. Eliyahu implicava persino che queste vittime di stupro dovessero essere grate di non essere uccise o tenute in schiavitù sessuale per il resto della loro vita.

“Notare che la sua vita è stata risparmiata durante la guerra”, ha scritto. “Non è nemmeno tenuta prigioniera con una spada. Non potrà vivere con lei, come uno vive con le donne e poi venderla come schiava. Lui la libera! Libera come un uccello!!”

Protagonista di bigottismo

La rivelazione che Shmuel Eliyahu ha dato tali riprovevoli consigli non dovrebbe sorprendere.

Il pastore israeliano di 60 anni, il cui stipendio è pagato dallo Stato,  ha creato la sua figura come il  principale bigotto del paese, incitando contro i palestinesi indigeni, i rifugiati africani, le comunità gay e lesbica di Israele e persino contro gli ebrei laici .

È stato indagato dalle autorità israeliane per presunto incitamento al razzismo – anche se poi non è stato perseguito.

Nel 2010, Eliyahu scrisse un editto religioso che vieta agli ebrei di vendere o addirittura affittare proprietà a persone non ebraiche.

Eliyahu fece pressioni su di un residente locale di Safad, un sopravvissuto all’Olocausto nazista di 89 anni,  perché smettesse di affittare stanze della sua casa ai cittadini palestinesi di Israele studenti del collegio locale. L’uomo alla fine chiese agli studenti di lasciare l’abitazione dopo avere ricevuto minacce per telefono riguardo l’incendio della sua casa se non lo avesse fatto.

Eliyahu è un figlio dell’anziano Mordechai Eliyahu, che fu capo rabbino d’Israele dal 1983 al 1993.

Quando tale carica rimase vacante nel 2013, Jewish Home – un partito profondamente coinvolto nel movimento dei coloni israeliani – sollecitò che fosse Shmuel Eliyahu ad occuparla. Jewish Home è parte della coalizione di governo di Israele.

Il suggerimento di proporre Eliyahu assomiglia allo stesso con cui venne proposto in passato Eyal Krim, ora rabbino capo dell’esercito israeliano.

Nel 2003, anche Krim  sancì lo stupro durante la guerra nella rubrica “Chiedi al rabbino” per Kipa.co.il.

L’anno scorso la sua nomina come rabbino capo dell’esercito è stata ritardata di una settimana. Infuriati dalle sue osservazioni sullo stupro, alcuni politici di sinistra si opposero alla sua nomina con un appello all’alta corte  israeliana; il loro appello fu respinto.

Durante quel breve ritardo, Krim ricevette il pieno sostegno di oltre 150 rabbini militari, nonché di ministri al governo del partito della  Jewish Home.

Negli ultimi anni, numerosi ministri della Jewish Home sono stati accusati di crimini sessuali. In un caso le accuse  furono esaminate da un forum di rabbini, affiliato con il partito, che decise di archiviare il caso.

Il capo di quel forum rabbinico era Shmuel Eliyahu.

 

trad. Invictapalestina.org

Fonte: https://electronicintifada.net/content/rabbi-who-urged-gaza-genocide-excused-rape-soldiers/21566

(*) David Sheen è uno scrittore e regista indipendente. Nato a Toronto, in Canada, Sheen vive a Dimona. Il suo sito web è http://www.davidsheen.com e può essere seguito su Twitter: @davidsheen.

Preso da: https://www.invictapalestina.org/archives/29721

La donna.

Dal Libro Verde, di Muammar Gheddafi.

La donna è un essere umano e l’uomo è un essere umano. Su ciò non esiste
disaccordo né dubbio alcuno. La donna e l’uomo, dal punto di vista umano,
ovviamente sono uguali. Fare una discriminazione tra uomo e donna sul piano
umano è un’ingiustizia clamorosa e senza giustificazione. La donna mangia e
beve come mangia e beve l’uomo. La donna odia e ama come odia e ama
l’uomo. La donna pensa, apprende e capisce come pensa, apprende e capisce
l’uomo. La donna ha bisogno di alloggio, di vestiario e di mezzo di trasporto
come ha bisogno l’uomo. La donna ha fame e ha sete come ha fame e ha sete
l’uomo. Ma allora perché esiste l’uomo e perché esiste la donna? Certo la
società umana non è formata soltanto da uomini o soltanto da donne, ma da
entrambi, ossia da uomo e donna assieme per legge di natura. Perché non
sono stati creati solo uomini oppure solo donne? Qual’è inoltre la differenza
tra uomini e donne, ossia fra l’uomo e la donna? Perché il creato ha richiesto
la creazione dell’uomo e della donna, il che si realizza con l’esistenza di
entrambi, e non dell’uomo soltanto, o della donna soltanto? Deve
assolutamente esservi una necessità naturale a favore dell’esistenza di
entrambi, e non soltanto dell’uno, o soltanto dell’altra.

 Dunque ciascuno dei
due non è l’altro, e fra i due vi è una differenza naturale, la cui prova è
l’esistenza dell’uomo e della donna assieme nel creato. Ciò di fatto significa
che per ciascuno dei due esiste un ruolo naturale che si differenzia
conformemente alla diversità dell’uno rispetto all’altro. Dunque è
assolutamente necessario che vi sia una condizione che ciascuno dei due vive,
e in cui svolge il suo ruolo diverso dall’altro. E tale condizione deve differire da
quella dell’altro, in ragione del diverso ruolo naturale proprio di ciascuno. Per
riuscire a comprendere tale ruolo, rendiamoci conto della differenza naturale
esistente fra la costituzione fisica dell’uomo e quella della donna, ossia quali
sono le differenze naturali tra i due: la donna è femmina e l’uomo è maschio.
La donna conformemente a ciò – come dice il ginecologo – ha le sue regole,
ovvero arrivata al mese è indisposta, mentre l’uomo per il fatto che è maschio
non ha le regole e di abitudine non è mensilmente indisposto. Questa
indisposizione periodica, cioè mensile, è un’emorragia. Vale a dire che la
donna, per il fatto che è femmina, è naturalmente soggetta ad una emorragia
mensile. Quando la donna non ha le sue regole è gravida. E se è tale, per la
natura stessa della gravidanza, è indisposta per circa un anno, ovvero

impedita in ogni attività naturale finché non partorisce.

Quando poi partorisce o quand’anche abortisce, è colpita dai disturbi
conseguenti ad ogni parto o aborto. Invece l’uomo non diviene gravido e di
conseguenza, per natura, non è colpito dai disturbi da cui è colta la donna per
il fatto che è femmina. La donna dopo il parto allatta l’essere che aveva
portato in sé. L’allattamento naturale dura circa due anni. Ciò significa che il
bambino è inseparabile dalla donna ed ella è inseparabile da lui, tanto che
sarà impedita da svolgere la sua attività e direttamente responsabile di un
altro essere umano: è lei che lo assiste nell’adempimento di tutte le funzioni
biologiche, e senza di lei egli morrebbe. Invece l’uomo non diviene gravido e
non allatta. E qui termina la spiegazione del medico. Questi dati naturali
creano differenze congenite, per le quali non è possibile che l’uomo e la donna
siano eguali. Esse di per sé costituiscono la reale necessità dell’esistenza, del
maschio e della femmina, cioè dell’uomo e della donna. Ciascuno dei due nella
vita ha un ruolo o una funzione diversa dall’altro, in cui non è assolutamente
possibile che il maschio subentri alla femmina: ossia non è possibile che
l’uomo assolva a queste funzioni naturali in luogo della donna. E’ degno di
considerazione che tali funzioni biologiche sono un peso gravoso per la donna,
che le impone uno sforzo ed una sofferenza non trascurabili. Ma senza dette
funzioni cui ella adempie la vita umana finirebbe: si tratta dunque di funzioni
naturali, non volontariamente scelte né obbligatorie, ma piuttosto necessarie,
la cui sola alternativa sarebbe la fine totale della vita del genere umano. Esiste
un intervento volontario contro la gravidanza, che costituisce l’alternativa
della vita umana; esiste un intervento volontario parziale contro la gravidanza;
esiste l’intervento contro l’allattamento. Essi però sono tutti anelli di una
catena di azioni contrarie alla natura della vita, culminanti nell’uccisione, ossia
nel fatto che la donna uccida se stessa nella sua essenza per non ingravidare,
non procreare e non allattare. Il che rientra negli interventi artificiali contro la
natura della vita rappresentata dalla gravidanza, l’allattamento, la maternità e
il matrimonio, salvo il fatto che essi ne differiscono nel grado. La rinuncia al
ruolo naturale della donna nella maternità, ossia che gli asili nido si
sostituiscano alla madre, è l’inizio della rinunzia alla società nella sua
dimensione umana e della sua trasformazione in società puramente biologica
e in vita artificiale. Separare i bambini dalle madri ammassandoli negli asili
nido è un’operazione che li rende pressoché pulcini, perché gli asili nido sono
qualcosa che rassomiglia alle stazioni di sagginamento in cui si ammucchiano i
pulcini dopo la covata. Infatti solo la maternità naturale conviene alla
costituzione dell’essere umano, è compatibile con la sua natura e confacente

alla sua dignità.

Vale a dire che il bambino va educato dalla madre e deve crescere in famiglia
in cui vi sono amore materno, paterno e fraterno e non in una sorta di
stazione come quella per allevare il pollame. Anche i polli tuttavia hanno il
bisogno della maternità come fase naturale, al pari dei rimanenti figli
dell’intero regno animale. Perciò allevarli in stazioni simili agli asili nido è
contro la loro crescita naturale, e persino la loro carne si accosta
maggiormente a quella preparata su base industriale che a quella di
allevamento spontaneo. La carne degli uccelli di allevamento (mahattàt) non è
gustosa e talora non fa nemmeno bene, poiché i rispettivi volatili non stati
allevati in modo naturale, ossia a riparo della maternità naturale. Invece i
volatili ruspanti sono più appetitosi e sostanziosi, poiché sono cresciuti grazie
alla maternità naturale e nutrendosi in modo naturale. In quanto ai senza
famiglia e ai senza tetto, la società ne è tutore. E’ solo per costoro che la
società dovrebbe istituire gli asili nido etc. E’ meglio che di essi si curi la
società, piuttosto che individui che non sono i loro padri. Se si facesse un
esperimento empirico per conoscere l’inclinazione naturale del bambino fra la
madre e il centro di puericultura, il bambino propenderebbe per la madre,
certo non per l’altro. E dato che la predilezione naturale del bambino è per la
madre, ella è dunque il riparo naturale e giusto dell’allevamento. Perciò
indirizzare il bambino all’asilo nido anziché lasciarlo alla madre è una
coercizione ed è un abuso contro la sua libera tendenza naturale. In tutte le
cose la crescita naturale è quella sana in piena libertà. Che si faccia dell’asilo
nido una madre è un atto coercitivo contrario alla libertà della crescita
corretta. I bambini sono condotti all’asilo nido forzatamente, oppure per il
fatto che li si raggira e per la loro semplicità infantile. E poi essi vi sono inviati
per cause puramente materiali, e non sociali. Ma, tolti i mezzi coercitivi
adottati nei loro confronti e la semplicità infantile, essi rifiuterebbero l’asilo
nido e starebbero attaccati alle loro madri. La sola giustificazione per questa
operazione innaturale e inumana è che la donna si trovi in una situazione
incompatibile con la natura, ovvero che sia costretta all’adempimento di
obblighi sociali e contrari alla maternità. La natura della donna le comporta un
ruolo diverso da quello dell’uomo, per poter adempiere al quale ella deve
porsi in una situazione diversa rispetto all’uomo. La maternità è funzione della
femmina, non del maschio. Perciò è naturale che i figli non vengano separati
dalla madre. Qualunque provvedimento che li separa dalla madre è abuso,
tirannia e dispotismo. La madre che rinuncia alla maternità verso i suoi figli
contravviene al suo ruolo naturale nella vita, ed occorre che le vengano

garantiti i diritti e le condizioni adeguate mancanti.

Sono egualmente l’abuso e il dispotismo che obbligano la donna a espletare il
suo ruolo naturale in circostanze innaturali, mettendola in una situazione di
contrasto intrinseco. Se la donna rinuncia al suo ruolo naturale del parto e
della maternità essendovi costretta, sono esercitate su di lei tirannia e
dispotismo. La donna bisognosa di un lavoro, che la renda incapace di
assolvere alla sua missione naturale, non è libera essendovi costretta dal
bisogno, perché nel bisogno la libertà scompare. Vi sono circostanze
appropriate e anche necessarie perché sia agevolato alla donna
l’adempimento della sua missione naturale, diversa da quella dell’uomo.
 Fra esse quelle che si confanno ad una persona indisposta, oppressa dalla
gravidanza, ossia dal portare in grembo un altro essere umano capace che la
deblita sul piano della capacità materiale. In una delle fasi della maternità è
ingiusto che la donna venga messa in una situazione non confacente a tale
stato: come il lavoro fisico, che per lei equivale a una sanzione corrispondente
al suo tradimento umano della maternità. Ed equivale anche a un tributo che
ella è costretta a pagare per entrare nel mondo degli uomini, che certo non
sono del suo stesso sesso. Si è convinti – compresa lei stessa – che la donna
svolga il lavoro fisico esclusivamente di una spontanea volontà, ma di fatto
non è così. Ella vi adempie solo perché la dura società materialistica l’ha
messa in circostanze di forza maggiore, senza che lei se ne rendesse
direttamente conto. E non le resta altra via che assoggettarsi alle condizioni di
tale società, mentre è convinta di lavorare per sua libera scelta. Ma ella non è
libera di fronte a una siffatta regola che sosterrebbe: “fra uomo e donna non
vi è differenza in nessuna cosa”. L’espressione “in nessuna cosa” è il grande
inganno nei confronti della donna. Distrugge infatti le condizioni a lei
appropriate e indispensabili: condizioni necessarie e di cui ella deve senz’altro
godere dinanzi all’uomo, in conformità alla sua natura che le ha predisposto
un ruolo da svolgere nella vita. L’eguaglianza fra l’uomo e la donna nel portare
pesi mentre ella è gravida è ingiustizia e crudeltà, come lo è l’eguaglianza fra
di loro nel digiuno e nella fatica mentre ella allatta. E’ ingiustizia e crudeltà
l’eguaglianza fra di loro in un lavoro sporco che sfigura la bellezza di una
donna, privandola della sua femminilità. E’ anche ingiustizia e crudeltà
addestrare la donna ad un programma che, di conseguenza la conduce allo
svolgimento di un lavoro non confacente alla sua natura. Fra l’uomo e la
donna non esiste differenza sul piano umano: a nessuno dei due è lecito
sposare l’altro senza il suo libero consenso, né sciogliere il matrimonio senza
un equo arbitrato che lo ratifichi, o senza l’accordo delle due volontà

dell’uomo e della donna al di fuori dell’arbitrato.

Oppure che la donna si sposi senza che vi sia accordo sullo scioglimento, o che
l’uomo si sposi senza che vi sia accordo sullo scioglimento. La donna è la
padrona della casa perché la casa è una delle condizioni appropriate e
necessarie a lei che è incinta, è indisposta, procrea ed assolve alla maternità.
La femmina è padrona del riparo della maternità, cioè la dimora, anche nel
mondo degli altri animali diversi dall’uomo. Per la sua natura il suo dovere è la
maternità, ed è un arbitrio privare i figli della madre o privare la donna della
casa. La donna non è altro che femmina. Femmina significa che essa ha una
natura biologica diversa da quella dell’uomo, per il fatto che egli è maschio. La
natura biologica della femmina, diversa dal maschio, ha assegnato alla donna
caratteristiche differenti da quelle dell’uomo sia nella forma sia nell’essenza.
L’aspetto della donna è diverso da quello dell’uomo perché ella è femmina,
così come ogni femmina fra gli esseri viventi, animali e vegetali, è diversa dal
maschio sia nella forma sia nell’essenza. Questa è una realtà naturale
indiscutibile. Il maschio nel regno animale e vegetale è stato creato forte e
rude per natura, mentre la femmina nei vegetali e negli animali è stata creata
bella e delicata per natura. Queste sono realtà naturali ed eterne con cui sono
stati creati gli esseri viventi chiamati uomini, animali, piante. In ragione di tale
diversa costituzione e delle leggi naturali, il maschio svolge il ruolo del forte e
del rude non per costrizione, ma perché è stato creato così. Invece la femmina
svolge il ruolo del delicato e del bello non per sua libera scelta, ma perché è
stata creata così. Questa regola naturale è la giusta norma, per il fatto che da
un lato è naturale e dall’altro è la regola fondamentale della libertà, dato che
le cose sono state create libere e che qualunque intervento contrario alla
regola della libertà è un arbitrio. Non attenersi a questi ruoli naturali e
trascurarne i limiti significa trascurare e corrompere i valori della vita stessa.
La natura è stata ordinata così per trovarsi in armonia con l’ineluttabilità della
vita fra l’essere e il divenire. L’essere vivente, allorché è creato vivente, è un
essere che necessariamente vive finché non muore. La durata dell’esistenza
tra il principio e la fine si basa su una legge costitutiva e naturale, in cui non vi
è possibilità di libera scelta né di coercizione, ma è naturale, è la libertà
naturale. Negli animali, nei vegetali e nell’uomo è necessario che vi siano
maschio e femmina per il realizzarsi della vita fra l’essere e il divenire. E non è
solo sufficiente che l’uomo e la donna esistano, ma bisogna anche che
svolgano il loro ruolo naturale per il quale sono stati creati. E ciò deve
avvenire con piena capacità. Se esso non è compiuto perfettamente, significa

che nel corso della vita vi è un difetto, conseguente a chissà quale circostanza.

E questa è la situazione oggi vissuta dalla società quasi ovunque al mondo,
come risultato della confusione fra il ruolo dell’uomo e quello della donna:
vale a dire in seguito ai tentativi di ridurre la donna in uomo. In armonia con la
natura costitutiva ed i suoi scopi, l’uomo e la donna devono sempre eccellere
nel loro ruolo. Altrimenti sarebbe la regressione, l’atteggiamento in contrasto
con la natura e distruttivo della regola della libertà, ed in contrasto con la vita
e con la sopravvivenza. E’ necessario che ciascuno dei due adempia al ruolo
per il quale è stato creato, senza rinunciavi; poiché il rinunciarvi, sia pure in
parte, si verifica solo per circostanze di forza maggiore, ovvero in una
situazione anomala. La donna che rifiuta la gravidanza e il matrimonio, oppure
l’ornamento e la leggiadria per motivi di salute, rinuncia al suo ruolo naturale
nella vita per la circostanza di forza maggiore della salute. La donna che rifiuta
la gravidanza e il matrimonio oppure la maternità etc. a causa del lavoro,
rinunzia al suo ruolo naturale per una circostanza egualmente di forza
maggiore. La donna che rifiuta la gravidanza, il matrimonio o la maternità etc,
senza alcuna causa concreta, rinuncia al suo ruolo naturale per una circostanza
di forza maggiore dovuta alla deviazione ideale rispetto alla regola della
natura costitutiva. Così non è possibile che la femmina o il maschio rinuncino a
svolgere il loro ruolo naturale nella vita, se non in circostanze innaturali,
contrarie alla libertà e minatorie per la sopravvivenza. Perciò è necessaria una
rivoluzione universale che elimini tutte le condizioni materiali che
impediscono alla donna l’espletamento del suo ruolo naturale nella vita, e che
le fanno svolgere i compiti dell’uomo perché sia pari a lui nei diritti. Questa
rivoluzione avverrà inevitabilmente, specie nelle società industriali, come
reazione dell’istinto di sopravvivenza, ed anche senza il bisogno di qualche
provocatore alla rivoluzione, come per esempio “Il Libro Verde”. Tutte le
società oggi guardano alla donna né più né meno che come ad una merce.
L’Oriente guarda ad essa come oggetto di godimento suscettibile di vendita e
di compera. L’Occidente guarda ad essa come se non fosse femmina. Indurre
la donna a svolgere il lavoro maschile è un’ingiusta aggressione contro la
femminilità di cui è stata naturalmente dotata per uno scopo naturale
necessario alla vita. Infatti il lavoro maschile cancella le belle fattezze della
donna con cui la natura costitutiva ha voluto che appaia perché svolga un
ruolo diverso da quello del lavoro confacente a chi non è femmina. E’
esattamente come i fiori, creati per attirare i grani del polline e per produrre le
semenze: se li eliminassimo finirebbe il ciclo delle piante nella vita. E’ proprio
l’abbellimento naturale della farfalla, degli uccelli e delle restanti femmine

degli animali che serve a questo scopo vitale naturale.

Se la donna svolge il lavoro maschile deve allora trasformarsi in uomo,
rinunziando al suo ruolo e alla sua bellezza. La donna ha pieni diritti, anche
senza essere costretta a trasformarsi in uomo e a rinunziare alla sua
femminilità. La conformazione fisica, per natura diversa fra l’uomo e la donna,
implica che differiscono anche le funzioni degli organi, diversi nella femmina
rispetto al maschio. Il che comporta a sua volta una differenza del loro intero
modo di essere : differenza di temperamento, di psiche, di nervi e di aspetto
fisico. La donna è tenera. La donna è bella. La donna ha facile il pianto. La
donna ha paura e generalmente, in conseguenza della conformazione
naturale, la donna è delicata, mentre l’uomo è rude. Ignorare le differenze
naturali tra l’uomo e la donna e confondere i loro ruoli è un atteggiamento del
tutto incivile, contrario alle leggi naturali, distruttivo per la vita umana e causa
reale di infelicità nella vita sociale dell’essere umano. Le società industriali in
quest’epoca hanno adattato la donna al lavoro nei suoi aspetti più materiali
rendendola come l’uomo, a scapito della sua femminilità e del suo ruolo
naturale nella vita, relativamente alla bellezza, alla maternità e alla
tranquillità. Ebbene esse sono società incivili, società materialistiche e
barbare. E’ stolto e pericoloso per la civiltà umana imitarle! Perciò il problema
non è che la donna lavori o non lavori. Questo è uno sciocco modo
materialistico di porre la questione. Occorre che la società procuri il lavoro a
tutti i suoi individui abili e bisognosi, uomini e donne. Ma ogni individuo deve
lavorare nel campo che gli si confà, senza essere forzato sotto arbitrio a fare
ciò che non gli si addice. E’ sopruso e dispotismo che i bambini si trovino nelle
condizioni di lavoro degli adulti. E’ anche sopruso e dispotismo che la donna si
trovi nella condizione di lavoro degli uomini. La libertà è che ogni essere
umano apprenda le cognizioni che gli si confanno, e che lo qualificano ad un
lavoro che gli si addice. Invece il dispotismo è che l’essere umano apprenda le
cognizioni che non gli si confanno e lo conducono a un lavoro che non gli si
addice. Il lavoro che si confà all’uomo non è sempre quello che si addice alla
donna, e le cognizioni che si confanno al bambino non sono quelle che si
addicono all’adulto. Non vi è differenza nei diritti umani fra l’uomo e la donna
e fra l’adulto e il bambino, ma non vi è eguaglianza completa fra loro per i doveri cui devono assolvere.

Donbass: ricordate e onorate le donne minatrici nel Giorno della Liberazione del Donbass

Scritto da Enrico Vigna

9 settembre 2019

L’8 settembre l’Associazione delle donne Aurora di Donetsk, ha dedicato un incontro alla Giornata della liberazione del Donbass. Questa è stata una grande vittoria per tutto il popolo sovietico e in particolare per le donne sovietiche.

Poche persone sanno che la liberazione del Donbass è stata effettuata dalle donne. A Donetsk, c’è un cartello commemorativo che informa che in questo sito “i discendenti riconoscenti hanno costruito un monumento alle donne del Donbass che hanno compiuto una storica impresa lavorativa, per ripristinare le miniere di carbone distrutte durante la Grande Guerra Patriottica e raggiungere il livello prebellico della produzione di carbone “.
https://1.bp.blogspot.com/-WXWGYM6C5Jc/XXZqusLQftI/AAAAAAAARr0/XvhsyMIWVSAVAQP5DHlHsYADCQQFn5mNgCLcBGAs/s640/TNhAlWDycw4.jpg
L’8 settembre l’Associazione Aurora con altri amici e compagni, hanno visitato questo luogo e portato fiori in segno di gratitudine a quelle operaie e operai, che hanno reso il Donbass Sovietico una prospera regione mineraria.

 

https://1.bp.blogspot.com/-FpQ-NOOQBAM/XXZq3nE7_0I/AAAAAAAARr4/CCFZFSTja-ERXyrEbKlYcbG4kVFSWF83ACLcBGAs/s640/OekXxHk8iF8.jpg

Un po ‘di storia.

Nel 1943, quando il Donbass fu liberato dagli invasori nazisti, si ritrovò con quasi tutte le sue miniere fatte saltare in aria e inondate dai nazisti prima della ritirata. All’estero, valutando l’entità della distruzione, fu predetto che la regione non si sarebbe rialzata per molto tempo e avrebbe perso il suo significato per lo sviluppo dell’industria e dell’economia dell’Unione Sovietica. Il quotidiano americano The New York Times scrisse: “Il Donbass è perso … Ci vorranno decenni per ripristinarlo“.
La ricostruzione e il rilancio delle miniere di carbone caddero sulle spalle delle donne. Già nel 1946, nel Donbass venivano estratte 106 milioni di tonnellate di carbone, che era 4 milioni di tonnellate in più rispetto al livello prebellico della produzione di carbone. In onore di ciò, nel 1947, fu firmato un decreto sull’istituzione della vacanza professionale nel Giorno dei Minatori, che è stata celebrata dal 1948.
Dal 1943 al 1947, fino all’80% delle donne lavorava sottoterra nelle miniere del Donbass. In totale, dalle 200.000 alle 250.000 donne lavoravano nelle miniere rispettivamente durante la guerra e nel dopoguerra. A circa 46.300 persone fu assegnata la medaglia “Per il ripristino delle miniere di carbone del Donbass”, più della metà delle quali donne.

https://1.bp.blogspot.com/-5lk8DCDgPw8/XXZq8au8RbI/AAAAAAAARr8/UUaOYndHjF8iqZ3WvPDRNcQ0jF9NwszxACLcBGAs/s640/eeMdXxWSVQI.jpg

Da Associazione di donne  Aurora, Donetsk, RPD

A cura di Enrico Vigna SOS Donbass/CIVG

https://1.bp.blogspot.com/-RGj3Zo6NvzQ/XXZrAEWoVvI/AAAAAAAARsE/REnfrhtCgk87R2nhQEVHMdOhzOsHA-wxQCLcBGAs/s640/ZAjyvLUp5vQ.jpg

Preso da: http://www.civg.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1597:donbass-ricordate-e-onorate-le-donne-minatrici-nel-giorno-della-liberazione-del-donbass&catid=2:non-categorizzato&Itemid=101

Benin City: ecco le suore “anti Carola” che sfidano il business immigrazionista



Le suore “anti Carola”: ha il velo l’Africa che sfida il business immigrazionista – di Nico Puntoni
Ecco l’Africa che sfida il business dell’immigrazione clandestina. L’anti-Carola ha il volto delle suore e dei volontari africani contro il traffico di migranti. 
A Benin City le suorine del Sacro Cuore di Gesù percorrono in lungo e in largo l’arcidiocesi per sensibilizzare la popolazione locale sui rischi dell’emigrazione illegale.
È un volto poco conosciuto della Chiesa e delle attività di volontariato d’ispirazione cattolica in Africa, ma che va raccontato perché così si salvano le vite dal traffico di uomini per l’Europa.


Non sono bianche, né ricche, né tedesche; ma nere, povere e nigeriane. Sono le suorine del Sacro Cuore di Gesù e percorrono in lungo e in largo l’arcidiocesi di Benin City per sensibilizzare la popolazione locale sui rischi dell’emigrazione illegale.
È un volto poco conosciuto della Chiesa e delle attività di volontariato d’ispirazione cattolica presenti in Africa, ma che merita di essere raccontato in quanto onora tra mille difficoltà il sacro principio di salvare vite umane.
Benin City, città della parte meridionale della Nigeria, è uno dei centri principali del traffico di migranti diretto verso le coste italiane attraverso la rotta del Nord Africa.
Le prime partenze da qui ci furono già negli anni ’80. Quest’area, non a caso, è stata anche la ‘culla’ della mafia nigeriana, ‘padrona’ del business criminale della prostituzione e del traffico d’organi in Europa.
L’immigrazione clandestina è la linfa degli affari sporchi di queste organizzazioni molto ramificate in patria e in fase d’espansione anche nei Paesi d’accoglienza.
L’esistenza di simili interessi dà bene l’idea del coraggio delle religiose del Sacro Cuore di Gesù che, consapevoli di sfidare “in casa” gruppi noti per la loro crudeltà e spregiudicatezza, non rinunciano ad andare di villaggio in villaggio, di parrocchia in parrocchia, a mettere in guardia – specialmente le donne – dai pericoli a cui si va incontro intraprendendo i cosiddetti “viaggi della speranza” verso l’Italia, tramite la Libia.
Le suore mettono a conoscenza le loro connazionali e i loro connazionali dell’incubo che si cela dietro alla promessa alettante di un buon lavoro in Europa: la schiavitù sessuale e l’espianto di organi a cui molto spesso le vittime sono condannate tramite minacce di ritorsioni sui familiari o di far ricorso ai riti voodoo.
Alle persone che incontrano durante questa loro attività, le sorelle del Sacro Cuore di Gesù non si limitano a parlare di questi pericoli, ma offrono anche un’alternativa grazie ad un centro formativo da loro gestito nella regione che prepara i giovani non scolarizzati ad acquisire le competenze necessarie per entrare nel mondo del lavoro.
All’interno della struttura, la Congregazione cura programmi in cui si insegna a cucire (anche abiti tradizionali africani), a cucinare e a realizzare grafici, oltre a prevedere borse di studio per i più indigenti e a fornire servizi di microcredito a madri sole e a vedove.
La Congregazione si preoccupa, poi, di agevolare il reinserimento in società delle vittime della tratta che decidono di tornare a casa.
Un percorso complesso, da affrontare superando giudizi e pregiudizi e che spesso richiede un passaggio intermedio in edifici ‘protetti’.
Uno di questi a Benin City è gestito dal Comitato per il sostegno della dignità delle donne (COSUDOW) coordinato da suor Emeneha, delle Figlie della Carità di San Vincenzo de’ Paoli, un altro ordine impegnato sul territorio nella campagna di sensibilizzazione contro la tratta.
Anche queste religiose vanno di villaggio in villaggio e chiedono di parlare con i capi locali per metterli al corrente della sorte che spetta prima in Libia e poi in Europa a quei giovani e quelle giovani che decidono di affidarsi ai mercanti di vite umane.
Il sostentamento di simili centri e di queste attività ha, ovviamente, un costo che spesso le religiose fanno grande difficoltà a coprire.
Per realtà come queste, che raccontano più di ogni dibattito il volto oscuro dell’immigrazione clandestina, non ci sono appelli o mobilitazioni sui media dei Paesi occidentali.
Così come ‘scomodo’ ad una certa narrazione radicata del fenomeno migratorio è l’impegno di quei migranti ritornati in patria che hanno deciso di dedicarsi a convincere i loro connazionali ad abbandonare il proposito di partire.
Operano anch’essi in Nigeria, sono i Volunteer Field Officers (Vfo) e collaborano con il programma Migranti come Messaggeri (MaM).
Riconoscibili per le magliette blu che indossano e i poster con le immagini dei ‘viaggi della speranza’ che portano con sé, queste persone si recano nei mercati più frequentati di Benin City e condividono le loro esperienze con la gente del posto.
Le storie personali, testimoniate spesso dalle ferite che portano sul proprio corpo, sono molto spesso gli argomenti più convincenti per far cadere quel mito, duro a morire nelle popolazioni locali, della vita migliore a cui vanno incontro i migranti tentando la traversata del Mediterraneo.
Non di rado, questi volontari diventano oggetto di insulti e aggressioni durante le loro azioni nei mercati della capitale dello Stato di Edo.
È radicato nelle popolazioni locali, infatti, un giudizio benevolo nei confronti delle migrazioni illegali, a cui hanno contribuito le ‘campagne pubblicitarie’ via passaparola che vanno nell’interesse dei trafficanti e tutte incentrate sul mito del ‘miracolo europeo’.
Questi migranti ritornati in patria sono doppiamente coraggiosi: agendo in questo modo, vincono il senso di vergogna – purtroppo molto diffuso agli occhi delle rispettive comunità – di non avercela fatta e, al tempo stesso, sfidano pubblicamente gli interessi di criminali senza pietà.
La testimonianza diretta di queste persone costituisce lo strumento più forte per scoraggiare chi è intenzionato a rivolgersi ai trafficanti e grazie a loro sono già centinaia i nigeriani che ci hanno ripensato.
Jude Ikuenobe, sopravvissuto al deserto ed oggi uno dei Vfo più attivi, ha spiegato bene a IPS News il senso di ciò che fanno: “Il messaggio è che anche se le cose vanno male a casa, questo non sarà mai un buon motivo per andarsi a suicidare. Perchè quando cerchi di viaggiare verso l’Europa attraverso il deserto e il mare, è come se ti andassi ad uccidere (…) dobbiamo far capire loro che l’immigrazione irregolare non porterà il successo atteso”. Fonte: La nuova bussola quotidiana

Preso da: https://informarexresistere.fr/business-immigrazionista-suore/

Sfruttamento sessuale, minori un quarto delle vittime

E’ quanto emerge dalla XIII edizione del rapporto ‘Piccoli schiavi invisibili 2019’ di Save the Children, pubblicato a pochi giorni dalla Giornata internazionale contro la tratta di esseri umani.
fonte: per la pace
da: ADN Kronos
Il business dello sfruttamento sessuale nel nostro Paese recluta le sue vittime in Nigeria, Romania, Bulgaria e Albania, e cambia modalità operative per rimanere sommerso. Un quarto delle vittime di tratta presunte o identificate in Europa sono minorenni e l’obiettivo principale dei trafficanti di esseri umani è lo sfruttamento sessuale. E’ quanto emerge dalla XIII edizione del rapporto ‘Piccoli schiavi invisibili 2019’ di Save the Children, una fotografia aggiornata della tratta e dello sfruttamento dei minori in Italia, ed in particolare del sistema dello sfruttamento sessuale e della specifica vulnerabilità delle sue vittime, in larga maggioranza di origine straniera.
In base al rapporto, diffuso a pochi giorni dalla Giornata internazionale contro la tratta di esseri umani, sulle 20.500 vittime di uno dei sistemi più violenti e senza scrupoli che si conoscano, registrate nell’Unione nel biennio 2015-16, il 56% dei casi riguarda la tratta a scopo di sfruttamento sessuale. Un pur consistente 26% è legato allo sfruttamento lavorativo, una vittima su 4 ha meno di 18 anni, due su tre sono donne o ragazze.
Il numero delle vittime di tratta minori e neo-maggiorenni intercettate in sole 5 regioni dagli operatori del progetto Vie d’Uscita di Save the Children è cresciuto del 58%, passando dalle 1.396 vittime del 2017 alle 2.210 nel 2018, mentre i Paesi di origine sono per il 64% la Nigeria e per il 34% Romania, Bulgaria e Albania.

“Un fenomeno di questa gravità e di queste proporzioni – ha dichiarato Raffaela Milano, direttrice dei Programmi Italia-Europa di Save the Children – necessita di un intervento nazionale coordinato tra tutti gli attori, in grado di garantire gli standard necessari ad una vera e propria azione di prevenzione, che deve scattare con tempestività appena le potenziali vittime entrano nel nostro Paese, e deve anche fornire i mezzi più efficaci per promuovere la fuoriuscita delle vittime e il loro percorso di integrazione”.

Per avvicinare tutti in modo semplice e coinvolgente al dramma dello sfruttamento sessuale collegato alla tratta, ‘Piccoli Schiavi Invisibili’ propone quest’anno al suo interno la graphic novel ‘Storia di Sophia. Una vittima di tratta. Una ragazza’  ( nella FOTO) illustrata dal fumettista Roberto Cavone, che racconta la storia vera di un’adolescente nigeriana.
In Italia le vittime di tratta accertate sono 1.660, con un numero sempre maggiore di minorenni coinvolti, cresciuti in un anno dal 9% al 13%. La sempre più giovane età delle vittime e la prevalenza dello sfruttamento di tipo sessuale trova conferma anche tra i 74 nuovi casi di minori che sono riusciti a uscire dal sistema di sfruttamento nel 2018 nel nostro Paese e sono stati presi in carico dai programmi di protezione istituzionale, soprattutto in Piemonte (18) e Sicilia (16). Uno su 5, infatti, non supera in età i 15 anni e lo sfruttamento sessuale riguarda quasi 9 casi su 10. In base al rapporto, anche se non rappresenta il principale obiettivo del sistema della tratta, lo sfruttamento lavorativo in Italia è in crescita e nel 2018 gli illeciti registrati con minori vittime, sia italiani che stranieri, sono stati 263, per il 76% nel settore terziario.
Le ragazze e le donne nigeriane, una volta giunte in Italia, dopo un viaggio attraverso la Libia e via mare dove subiscono abusi e violenze, devono restituire alla ‘maman’, la figura femminile che gestisce il loro sfruttamento, un debito di viaggio che raggiunge i 30mila euro e sono costrette a ”lavorare” fino a 12 ore tutte le notti, anche per 10-20 euro a prestazione, raccogliendo dai 300 ai 700 euro al giorno. Buona parte dei soldi servono però per pagare vitto, alloggio e vestiti, spesso anche per l’affitto del posto in strada dove si prostituiscono e l’estinzione del debito diventa così quasi irraggiungibile. Sulle nostre strade, sottolinea ‘Save the Children’, è rimasta invece costante la presenza di ragazze di origine rumena o bulgara, ma si segnala un aumento delle ragazze di origine albanese, un ritorno, che riguarda anche i gruppi criminali albanesi in Italia, secondi solo a quelli nigeriani.
Il reclutamento delle vittime nei Paesi di origine avviene con metodi sempre più efficaci, come ad esempio in Romania, dove diverse testimonianze di vittime raccolte in Italia hanno rilevato l’esistenza di ”sentinelle” dei trafficanti che individuano in anticipo negli orfanotrofi le ragazze che stanno per lasciare le strutture al compimento dei 18 anni, e mettono in atto un adescamento basato – come per tutte le connazionali – su finte promesse d’amore e di un futuro felice in Italia, facendo leva sulla loro condizione di deprivazione affettiva. Secondo ‘Save the Children’ finti lover boy che sono affiancati ad ogni ragazza lungo tutto il periodo di sfruttamento in Italia, che può durare anni, ne controllano l’attività, ma esercitano un controllo totale e violento, come nel caso, riportato dagli operatori, di una ragazza rimasta incinta indotta ad entrare in una vasca riempita di cubetti di ghiaccio per indurre l’aborto per shock termico. ‘
‘Un sistema di tratta degli esseri umani così forte e spietato nei confronti di ragazze quasi bambine e giovani donne, in grado di adattarsi e modificare il proprio operato per rimanere sommerso, rende più che mai necessario incentivare e rafforzare la cooperazione con i Paesi di origine e di transito, al fine di rafforzare la lotta alla tratta in quanto crimine internazionale e transnazionale – sottolinea Antonella Inverno, Responsabile Politiche per l’Infanzia di Save the Children Italia – In Italia occorre intensificare l’azione congiunta, anche promuovendo la definizione e adozione di protocolli e convenzioni per l’individuazione precoce delle vittime di tratta, sulla base di un approccio multi-agenzia che coinvolga tutti gli attori territoriali interessati”.

La deputata del Kosovo Flora Brovina ammette che foto di “stupri di guerra” sono probabilmente false. Per aver detto la verità, ora è minacciata e insultata

Scritto da Forum Belgrado Italia

La deputata del Kosovo Flora Brovina, ha suscitato indignazione tra gli estremisti albanesi del Kosovo, perché  mostrando ai media una fotografia dove presunti soldati serbi violentano una donna di etnia albanese durante la guerra, ha ammesso che era probabilmente tutto falso.
Flora Brovina si è poi scusata per aver mostrato la fotografia molto brutale ai media. Dove si vedono tre soldati serbi che violentavano una donna di etnia albanese durante la guerra.

https://balkaninsight.com/wp-content/uploads/2019/05/10363374_451218965022937_6591002958908379340_n-1280x720.jpg

“La fotografia è probabilmente falsificata“, ha detto Brovina in una conferenza stampa.
Voglio scusarmi con tutti, specialmente con le donne che sono state violentate durante la guerra. Mi era stata data questa fotografia nel 2003 in una busta. Non avevo pensato di verificarla perché l’ho avuta nel 2003. La persona che me l’ha dato è un attivista per i diritti umani “, ha aggiunto.
Brovina, un deputato del Partito Democratico al governo del Kosovo, ha mostrato la fotografia non censurata ai media nel corridoio dell’Assemblea del Kosovo, durante un dibattito su una proposta di risoluzione parlamentare che accusava la Serbia di aver commesso un genocidio durante la guerra del 1998-99.

Le sue azioni sono state condannate da diverse donne, tra cui l’ex presidente Atifete Jahjaga, e da Vasfije Krasniqi Goodman, una delle prime donne in Kosovo a parlare pubblicamente della sua esperienza di violentata durante la guerra.

La procura speciale del Kosovo ha avviato un’indagine per verificare se la fotografia è autentica o meno. L’indagine è stata avviata dopo che le ricerche online hanno mostrato la stessa immagine su pagine web che indicano che sia stata scattata durante la guerra in Iraq. L’immagine appare anche su un sito di pornografia.

Shpend Ahmeti, il sindaco di Pristina e leader del partito socialdemocratico, ha detto che se il quadro è falso, causerà danni enormi a tutte le vittime della guerra. Anche alcuni politici donne del Kosovo hanno reagito furiosamente dopo che Brovina ha mostrato la foto giovedì, definendo le sue azioni non etiche.
Il deputato Saranda Bogujevci, del partito di opposizione Vetevendosje (AutoDeterminazione), ha affermato che la fotografia non avrebbe dovuto essere resa pubblica.

https://balkaninsight.com/wp-content/uploads/2019/05/specialprosecution-640-2.jpg

Giugno 2019     –     a cura del Forum Belgrado Italia

Preso da: http://www.civg.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1564:la-deputata-del-kosovo-flora-brovina-ammette-che-foto-di-stupri-di-guerra-sono-probabilmente-false-per-aver-detto-la-verita-ora-e-minacciata-e-insultata&catid=2:non-categorizzato

12 milioni di bambine nel mondo costrette al matrimonio

Quando Gabriella Gillespie aveva 6 anni, suo padre uccise sua madre. Quando di anni ne aveva 13, il padre portò lei e le sorelle a vivere nel proprio paese d’origine, lo Yemen, dove le figlie furono vendute in matrimonio.

Disperata alla prospettiva di sposare l’uomo di oltre 60 anni a cui era stata promessa, la sorella di Gabriella, la diciassettenne Issy, indossò l’abito nuziale e si gettò dal tetto. Issy precipitò verso la morte, mentre gli ospiti ignari continuavano a festeggiare.
Come riportato dall’Independent, le sorelle rimaste, che non parlavano una parola d’arabo, si rassegnarono a vivere in un remoto villaggio di montagna – tutt’altra cosa rispetto alle comodità dell’era moderna, in abitazioni di fango prive di elettricità.

Nelle comunità rurali, le bambine sono date in sposa già a partire dall’età di otto anni; alcune muoiono durante la prima notte di nozze, mentre altre subiscono orribili lacerazioni. La consumazione avviene su un trono avvolto da stoffa bianca, dopodiché la famiglia espone il tessuto insanguinato come fosse un trofeo. La giovane sa bene quale destino la attende se non dovesse sanguinare – sarà restituita alla propria famiglia e verrà assassinata, sulla base della convinzione che non fosse vergine.
Dopo anni di matrimonio costellati di abusi fisici, sessuali, emotivi e psicologici, Gabriella è riuscita infine a fuggire nel Regno Unito insieme ai suoi cinque figli.
Macabre vicende di questo tipo non sono riservate a chi proviene da paesi in via di sviluppo. Gabriella è nata in Gran Bretagna – come la propria madre, una donna inglese. E secondo le stime dell’organizzazione Unchained At Last, nei soli Stati Uniti più di duecentomila minorenni sono state coinvolte in matrimoni legali, fra il 2000 e il 2015. La straziante realtà è che ogni anno, nel mondo, 12 milioni di bambine vengono date in sposa, il che significa che ciò accade a una bambina ogni due secondi.
Rachel Yates, che attualmente ricopre il ruolo di direttore esecutivo presso Girls not Brides, l’impresa globale per porre fine al fenomeno dei matrimoni con minorenni, ha dichiarato:
“Si verificano casi di spose bambine in ogni parte del mondo, dal Medio Oriente all’America latina, dall’Asia meridionale all’Europa. Alla base del matrimonio contratto con minorenni vi sono le disuguaglianze di genere, e la convinzione che le bambine e le donne siano in qualche modo inferiori ai ragazzi e agli uomini. La povertà, la mancanza d’istruzione, le tradizioni culturali e l’incertezza alimentano e sostengono questa pratica.
“Queste ragazze non sono pronte, né fisicamente né emotivamente, a diventare mogli e madri. Di solito subiscono un’enorme pressione perché si riproducano prima che i loro corpi possano sopportarlo, e perché i figli siano numerosi. Il rischio che si presentino gravi complicazioni durante la gravidanza e il parto è più alto, come lo è quello di contrarre l’HIV o l’AIDS e di essere vittime di violenza domestica.
“Ma questa pratica non è dannosa solo per le bambine. Gli studi dimostrano che il fenomeno sta costando al mondo miliardi e miliardi di dollari. Se poniamo fine ai matrimoni con minorenni, allora le bambine, le loro famiglie, le comunità e le nazioni stesse godranno, nel complesso, di maggiori disponibilità economiche e di un migliore stile di vita.”
“Caroline” dal Kenya ha raccontato a Equality Now, un’organizzazione no-profit dedita all’affermazione dei diritti umani di donne e bambine, che aveva solo sette anni quando la madre decise di farla circoncidere, per prepararla alle nozze. L’esperienza, impossibile da dimenticare, si rivelò brutale, dolorosa e traumatica.
Poco dopo, Caroline scoprì che la madre aveva intenzione di farle sposare un uomo la cui età oscillava fra i 50 e i 60 anni. Un giorno, prima dell’alba, è scappata di casa per rifugiarsi in un centro della Tasaru Ntomonok Initiative (nell’ambito delle attività di Girls Not Brides in Kenya), dove le è stata data l’opportunità di iniziare a rifarsi una vita e di riprendere a frequentare la scuola.
“Innanzitutto, ci sono le situazioni in cui le famiglie delle bambine prendono accordi con altre famiglie per organizzare il matrimonio con un ragazzo o un uomo,” ha spiegato Jean-Paul Murunga, funzionario di progetto presso Equality Now.
“A seguire ci sono i casi in cui l’età della sposa si definisce su base religiosa. Nell‘Islam, per esempio, i testi sacri stabiliscono che una giovane debba sposarsi una volta raggiunta la pubertà. Trattandosi di un termine ambiguo, l’Islam non dà una definizione precisa dell’età anagrafica corrispondente. In paesi come il Sudan, dove la legge vigente è la Sharia, le bambine vengono date in sposa fra i 10 e i 12 anni.
“Si registrano, inoltre, molti casi di spose minorenni all’interno delle società patriarcali. Le ragazze sono viste come soggetti subordinati e devono conformarsi alle prescrizioni degli uomini. Molto spesso accade che contraggano matrimonio fra i 16 e i 18 anni, perché il consenso alle nozze è stato fornito dai loro genitori o tutori.
“Un altro fattore importante è la povertà. Le famiglie povere possono migliorare la propria situazione finanziaria facendo sposare la figlia. Più la ragazza è giovane, ed essendo vergine, più è considerata pura e pertanto la dote sarà più sostanziosa. Alle famiglie interessa dare via le figlie prima della pubertà per il timore che, superata quell’età, ci siano buone probabilità che diventino sessualmente attive, che rovinino il nome della famiglia, o che si abbassi il prezzo della dote.
“E l’ultimo scenario è quello che si verifica nei paesi teatro di conflitti politici, dove gli individui sono spesso dislocati. Le famiglie consegnano le figlie ad altre famiglie più ricche, sperando che così godano di maggiore sicurezza e agio. Ma la realtà è che le bambine si ritrovano intrappolate in reti di violenze, abusi sessuali e matrimoni con minorenni.”
Quello delle spose bambine è un problema complesso, per cui non esiste una soluzione ottimale. Gli esperti ritengono che l’istruzione abbia un ruolo fondamentale – non solo dal punto di vista accademico, ma anche rispetto alla comunità estesa di quanti risultano maggiormente colpiti dal fenomeno.
All’inizio di quest’anno l’UNICEF ha pubblicato un rapporto in cui si registravano lievi diminuzioni nella casistica globale dei matrimoni contratti con minorenni. Tuttavia, a meno di non affrontare con misure adeguate le questioni legate alle norme sociali e alla disuguaglianza di genere, a queste bambine continuerà ad essere negata l’esistenza emancipata, propria del ventunesimo secolo, che spetta loro di diritto.
Traduzione di Maria Luisa Grasso

Preso da: https://it.insideover.com/donne/12-milioni-di-bambine-nel-mondo-costrette-al-matrimonio.html

La Libia, dall’era Gheddafi ai giorni nostri

Nel 1967 il colonnello Gheddafi ereditò una delle Nazioni più povere in Africa ma, al momento in cui il leader libico fu assassinato, aveva trasformato la Libia in una nazione fra le più ricche.


La Libia aveva il più alto PIL pro capite e la speranza di vita nel paese era in costante crescita, nel contempo pochissime persone vivevano sotto la soglia di povertà rispetto ad altri paesi africani. In oltre quaranta anni Gheddafi aveva promosso la democrazia economica utilizzando la ricchezza del petrolio per sostenere programmi di assistenza sociale per tutti i libici. Sotto il governo di Gheddafi i libici godevano di assistenza sanitaria e istruzione gratuita, ma anche l’energia elettrica era a zero costo e i prestiti bancari alle famiglie, per mutui o spese per le normali attività domestiche, venivano erogati senza applicare alcun interesse.

A differenza di molte altre nazioni arabe, le donne nella Libia di Gheddafi avevano il diritto all’istruzione, ricoprivano incarichi pubblici, potevano sposare chi volevano, divorziare, possedere beni e disporre di un reddito. Nel 1969 solo poche donne frequentavano l’Università mentre nel 2011 più della metà degli studenti universitari della Libia erano donne. Una delle prime leggi operate da Gheddafi nel 1970 era la pari retribuzione fra uomini e donne.
Il 4 gennaio 2011 lo stesso Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite aveva riconosciuto ed elogiato Gheddafi (leggi il documento) per la sua promozione dei diritti civili e delle donne. In pratica prima lo hanno lodato e pochi mesi dopo chi lo ha ucciso si è giustificato dicendo di aver liberato il mondo da un pericoloso e sanguinario dittatore. Assurdo!

Il dopo Gheddafi

A seguito del scellerato intervento francese e della NATO del 2011, la situazione attuale è un vero disastro annunciato. La Libia è ormai uno stato fallito e la sua economia è allo sfascio. Non vi è un controllo governativo e l’amministrazione dello Stato scivola tra le dita dei fantocci eletti dall’ONU per finire nelle mani dei combattenti delle milizie locali, facenti parte di tribù islamiste che al tempo di gheddafiana memoria erano dei classici criminali.

In pratica l’occidente ha consegnato le chiavi della nazione a una banda di assassini spietati e senza regole. Tutto questo pur di liberarsi di un Gheddafi che aveva finanziato metà campagne elettorali dei leader democratici europei (Sarkozy per esempio).
Il risultato oggi è ben chiaro: per merito dell’intervento Francia/Nato la Libia ha ora due governi, ognuno di questi con il proprio primo ministro, Parlamento e persino esercito.
Il Parlamento, quello che era stato eletto per volere dell’ONU e riconosciuto dalla cosiddetta ‘comunità internazionale’, è stato spazzato via da Tripoli dalle milizie islamiste che poi hanno assunto il controllo della capitale nonché in altre città. Nella parte orientale del paese, quello che tutti riconoscono come il governo ‘legittimo’ e dominato da coloro che si professano anti-islamisti, è stato esiliato a un migliaio di chilometri di distanza dalla capitale, precisamente a Tobruk, e di fatto non governa più nulla.
La caduta di Gheddafi ha creato tutti gli scenari peggiori del paese: le ambasciate occidentali non esistono più, il sud del paese è diventato un rifugio per i terroristi e il nord un centro del traffico di migranti. Egitto, Algeria e Tunisia hanno chiuso tutti i loro confini con la Libia. Nel paese vi è un contesto di illegalità assoluta, si va dallo stupro diffuso agli omicidi di massa che restano assolutamente impuniti.

La strategia futura della CIA

 L’America, da sempre impegnata a esportare libertà e democrazia nel mondo :-), riesce a contribuire in questo disastroso scenario alimentando una terza via. Non bastano i due governi, ormai totalmente inutili e inetti, ora in Libia ci sono gli Stati Uniti che aprono un nuovo scenario con una terza forza, totalmente indipendente dalle altre due. Ed è la solita CIA, il servizio di maggior intelligence 🙂 esistente al mondo, a individuare la soluzione di tutti i mali libici attraverso la figura del generale Khalifa Belqasim Haftar quale prossimo leader libico e, per questo, l’interessato già mira ad autoproclamarsi ‘nuovo dittatore’ della Libia.
Tanto per capire di che personaggio stiamo parlando, si sappia che il generale Haftar, antico nemico giurato di Gheddafi tanto da dover fuggire dal paese, si era trasferito in USA, in Virginia, guarda caso proprio vicino al quartier generale della CIA, dove si dice sia stato addestrato dall’Agenzia per prendere parte ai numerosi tentativi di golpe in Libia, sempre falliti fino al 2011, per rovesciare Gheddafi.
Non solo, nel 1991 il New York Times riferiva che Haftar era uno dei seicento soldati libici addestrati dalla CIA in atti di sabotaggio e altre azioni di guerriglia per rovesciare il regime di Gheddafi. Questo mini esercito libico/americano è stato costituito dal presidente Reagan e mantenuto integro fino all’intervento francese del 2011.

Il vero obiettivo dell’occidente

In realtà, l’obiettivo dell’occidente non era certo quello di aiutare il popolo libico, asserendo che in Libia si era oppressi e soffocati da un dittatore talmente crudele che aveva la colpa di aver contribuito a far vivere il più alto tenore di vita in Africa, bensì di spodestare Gheddafi, installare un regime fantoccio e ottenere il controllo delle risorse naturali della Libia.
Non ci vuole un Qi troppo elevato per capirlo, eppure dai mass media leggiamo ancora oggi che la Libia è stata liberata da un tiranno per garantire la democrazia e gli equilibri in Medio Oriente. E il bello è che ci credono in tanti.

Un decennio di fallimenti militari giustificato da un business miliardario

Qualche anno fa la Nato ha dichiarato che la missione in Libia era stato “uno dei più riusciti nella storia della Nato”. A parte il fatto che molto del merito va alla ‘furbesca’ Francia e non certo alla Nato, la verità è sotto gli occhi di tutti: questo intervento occidentale non ha prodotto nulla se non fallimenti colossali in Libia, Iraq e Siria. E parliamoci chiaro: prima del coinvolgimento militare occidentale, queste tre nazioni erano gli Stati più moderni e laici esistenti in Medio Oriente e in tutto il nord Africa, con il più alto tasso di godimento dei diritti della donna e del tenore di vita.
Un decennio di fallimentari spedizioni militari in Medio Oriente ha lasciato il popolo americano un trilione di dollari di debito. Tuttavia qualcuno in particolare negli USA hanno beneficiato immensamente per tali costose e mortali guerre: l’industria militare americana.
La costruzione di nuove basi militari significa miliardi di dollari per l’élite militare statunitense. È dai tempi del bombardamento dell’Iraq che gli Stati Uniti hanno costruito nuove basi militari in Kuwait, Bahrain, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Oman e Arabia Saudita. Dopo l’Afghanistan gli Stati Uniti hanno costruito basi militari in Pakistan, Kazakistan, Uzbekistan e Tagikistan, mentre dopo la Libia hanno realizzato nuove basi militari in Seychelles, Kenya, Sud Sudan, Niger e Burkina Faso.
In tutti questi paesi a presenza militare americana sono a basso tenore di vita della popolazione e a forte limitazione delle libertà individuali, delle donne in special modo.
Infine, il flusso dei migranti rischia di far ‘scoppiare’ l’Europa. E qui ricordo la profezia di Gheddafi che, a quanto pare, si sta puntualmente avverando quando nel 2011 disse:

“State bombardando il muro che si erge sulla strada dei migranti e dei terroristi verso l’Europa”.

Di ogni intervento americano nel mondo non esiste un fattore positivo per l’Umanità, bensì serve a rendere invincibile chi, come Trump, dice di avere “il pulsante più grande che, tra l’altro, funziona”.
Eh sì, vediamo bene come funziona.
Questo articolo è stato pubblicato qui

Preso da: https://www.agoravox.it/La-Libia-dall-era-Gheddafi-ai.html

La Libia, dall’era Gheddafi ai giorni nostri

Nel 1967 il colonnello Gheddafi ereditò una delle Nazioni più povere in Africa ma, al momento in cui il leader libico fu assassinato, aveva trasformato la Libia in una nazione fra le più ricche.


La Libia aveva il più alto PIL pro capite e la speranza di vita nel paese era in costante crescita, nel contempo pochissime persone vivevano sotto la soglia di povertà rispetto ad altri paesi africani. In oltre quaranta anni Gheddafi aveva promosso la democrazia economica utilizzando la ricchezza del petrolio per sostenere programmi di assistenza sociale per tutti i libici. Sotto il governo di Gheddafi i libici godevano di assistenza sanitaria e istruzione gratuita, ma anche l’energia elettrica era a zero costo e i prestiti bancari alle famiglie, per mutui o spese per le normali attività domestiche, venivano erogati senza applicare alcun interesse.

A differenza di molte altre nazioni arabe, le donne nella Libia di Gheddafi avevano il diritto all’istruzione, ricoprivano incarichi pubblici, potevano sposare chi volevano, divorziare, possedere beni e disporre di un reddito. Nel 1969 solo poche donne frequentavano l’Università mentre nel 2011 più della metà degli studenti universitari della Libia erano donne. Una delle prime leggi operate da Gheddafi nel 1970 era la pari retribuzione fra uomini e donne.
Il 4 gennaio 2011 lo stesso Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite aveva riconosciuto ed elogiato Gheddafi (leggi il documento) per la sua promozione dei diritti civili e delle donne. In pratica prima lo hanno lodato e pochi mesi dopo chi lo ha ucciso si è giustificato dicendo di aver liberato il mondo da un pericoloso e sanguinario dittatore. Assurdo!

Il dopo Gheddafi

A seguito del scellerato intervento francese e della NATO del 2011, la situazione attuale è un vero disastro annunciato. La Libia è ormai uno stato fallito e la sua economia è allo sfascio. Non vi è un controllo governativo e l’amministrazione dello Stato scivola tra le dita dei fantocci eletti dall’ONU per finire nelle mani dei combattenti delle milizie locali, facenti parte di tribù islamiste che al tempo di gheddafiana memoria erano dei classici criminali.

In pratica l’occidente ha consegnato le chiavi della nazione a una banda di assassini spietati e senza regole. Tutto questo pur di liberarsi di un Gheddafi che aveva finanziato metà campagne elettorali dei leader democratici europei (Sarkozy per esempio).
Il risultato oggi è ben chiaro: per merito dell’intervento Francia/Nato la Libia ha ora due governi, ognuno di questi con il proprio primo ministro, Parlamento e persino esercito.
Il Parlamento, quello che era stato eletto per volere dell’ONU e riconosciuto dalla cosiddetta ‘comunità internazionale’, è stato spazzato via da Tripoli dalle milizie islamiste che poi hanno assunto il controllo della capitale nonché in altre città. Nella parte orientale del paese, quello che tutti riconoscono come il governo ‘legittimo’ e dominato da coloro che si professano anti-islamisti, è stato esiliato a un migliaio di chilometri di distanza dalla capitale, precisamente a Tobruk, e di fatto non governa più nulla.
La caduta di Gheddafi ha creato tutti gli scenari peggiori del paese: le ambasciate occidentali non esistono più, il sud del paese è diventato un rifugio per i terroristi e il nord un centro del traffico di migranti. Egitto, Algeria e Tunisia hanno chiuso tutti i loro confini con la Libia. Nel paese vi è un contesto di illegalità assoluta, si va dallo stupro diffuso agli omicidi di massa che restano assolutamente impuniti.

La strategia futura della CIA

 L’America, da sempre impegnata a esportare libertà e democrazia nel mondo :-), riesce a contribuire in questo disastroso scenario alimentando una terza via. Non bastano i due governi, ormai totalmente inutili e inetti, ora in Libia ci sono gli Stati Uniti che aprono un nuovo scenario con una terza forza, totalmente indipendente dalle altre due. Ed è la solita CIA, il servizio di maggior intelligence 🙂 esistente al mondo, a individuare la soluzione di tutti i mali libici attraverso la figura del generale Khalifa Belqasim Haftar quale prossimo leader libico e, per questo, l’interessato già mira ad autoproclamarsi ‘nuovo dittatore’ della Libia.
Tanto per capire di che personaggio stiamo parlando, si sappia che il generale Haftar, antico nemico giurato di Gheddafi tanto da dover fuggire dal paese, si era trasferito in USA, in Virginia, guarda caso proprio vicino al quartier generale della CIA, dove si dice sia stato addestrato dall’Agenzia per prendere parte ai numerosi tentativi di golpe in Libia, sempre falliti fino al 2011, per rovesciare Gheddafi.
Non solo, nel 1991 il New York Times riferiva che Haftar era uno dei seicento soldati libici addestrati dalla CIA in atti di sabotaggio e altre azioni di guerriglia per rovesciare il regime di Gheddafi. Questo mini esercito libico/americano è stato costituito dal presidente Reagan e mantenuto integro fino all’intervento francese del 2011.

Il vero obiettivo dell’occidente

In realtà, l’obiettivo dell’occidente non era certo quello di aiutare il popolo libico, asserendo che in Libia si era oppressi e soffocati da un dittatore talmente crudele che aveva la colpa di aver contribuito a far vivere il più alto tenore di vita in Africa, bensì di spodestare Gheddafi, installare un regime fantoccio e ottenere il controllo delle risorse naturali della Libia.
Non ci vuole un Qi troppo elevato per capirlo, eppure dai mass media leggiamo ancora oggi che la Libia è stata liberata da un tiranno per garantire la democrazia e gli equilibri in Medio Oriente. E il bello è che ci credono in tanti.

Un decennio di fallimenti militari giustificato da un business miliardario

Qualche anno fa la Nato ha dichiarato che la missione in Libia era stato “uno dei più riusciti nella storia della Nato”. A parte il fatto che molto del merito va alla ‘furbesca’ Francia e non certo alla Nato, la verità è sotto gli occhi di tutti: questo intervento occidentale non ha prodotto nulla se non fallimenti colossali in Libia, Iraq e Siria. E parliamoci chiaro: prima del coinvolgimento militare occidentale, queste tre nazioni erano gli Stati più moderni e laici esistenti in Medio Oriente e in tutto il nord Africa, con il più alto tasso di godimento dei diritti della donna e del tenore di vita.
Un decennio di fallimentari spedizioni militari in Medio Oriente ha lasciato il popolo americano un trilione di dollari di debito. Tuttavia qualcuno in particolare negli USA hanno beneficiato immensamente per tali costose e mortali guerre: l’industria militare americana.
La costruzione di nuove basi militari significa miliardi di dollari per l’élite militare statunitense. È dai tempi del bombardamento dell’Iraq che gli Stati Uniti hanno costruito nuove basi militari in Kuwait, Bahrain, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Oman e Arabia Saudita. Dopo l’Afghanistan gli Stati Uniti hanno costruito basi militari in Pakistan, Kazakistan, Uzbekistan e Tagikistan, mentre dopo la Libia hanno realizzato nuove basi militari in Seychelles, Kenya, Sud Sudan, Niger e Burkina Faso.
In tutti questi paesi a presenza militare americana sono a basso tenore di vita della popolazione e a forte limitazione delle libertà individuali, delle donne in special modo.
Infine, il flusso dei migranti rischia di far ‘scoppiare’ l’Europa. E qui ricordo la profezia di Gheddafi che, a quanto pare, si sta puntualmente avverando quando nel 2011 disse:

“State bombardando il muro che si erge sulla strada dei migranti e dei terroristi verso l’Europa”.

Di ogni intervento americano nel mondo non esiste un fattore positivo per l’Umanità, bensì serve a rendere invincibile chi, come Trump, dice di avere “il pulsante più grande che, tra l’altro, funziona”.
Eh sì, vediamo bene come funziona.
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Preso da: https://www.agoravox.it/La-Libia-dall-era-Gheddafi-ai.html

Lo scontro di civiltà si combatte sulle donne

‘Lo scontro delle civiltà’ come lo ha definito Huntington nel suo libro anticipatore del 1996 fra Occidente e mondo islamico si gioca in larga misura sul diverso ruolo che la donna ha nelle due culture. Se l’Occidente riesce a convincere la donna islamica a omologarsi a quella occidentale ha vinto la partita senza sparare un solo colpo a parte quelli contro gli estremisti jihadisti dell’Isis che, per quanto valenti, non hanno la forza per opporsi a lungo allo strapotere militare della ‘cultura superiore’. Come spiega il filosofo e antropologo Lévi-Strauss una cultura è fatta di pesi e contrappesi, di misure e contromisure, che la tengono in equilibrio. Se qualcuno degli elementi costitutivi di questa cultura viene eliminato ne modifica anche tutti gli altri e la cultura in questione ne esce disgregata e alla fine distrutta. Come è avvenuto nell’Africa Nera non per motivi legati ai rapporti sessuali (le donne dell’Africa subsahariana sono sempre state sessualmente molto libere fin dai tempi in cui le nostre portavano ancora la cintura di castità) ma per motivi economici.

Per questo la propaganda occidentale insiste in modo asfissiante sui diritti negati alla donna musulmana, ottenendo con ciò anche l’appoggio spontaneo delle nostre donne che, anche qualora detestino la politica di aggressione dei Bush, dei Clinton, degli Obama, sentono il dovere morale di correre in soccorso delle ‘sorelle’ islamiche. Se la ‘moral suasion’ non basta ci sono allora le sanzioni economiche, come per l’Iran, o le bombe come per l’Afghanistan e la Somalia. Esemplare è la vicenda dell’Afghanistan. Da quindici anni gli occidentali occupano e combattono questo Paese alla cui guida hanno imposto, com’è collaudato costume, un loro fantoccio, Ashraf Ghani, che ha studiato alla Columbia University, ha insegnato alla John Hopkins, è stato membro del Fondo Monetario Internazionale (FMI) è di moglie libanese e cristiano maronita, e che di afgano non ha nulla se non la nascita. L’Afghanistan non ha il petrolio, il suo sottosuolo è fra i più poveri del mondo. E anche la sua posizione geografica può essere considerata strategica solo volendo forzare molto le cose. Anche Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan si trovano, più o meno, nella stessa posizione in Asia Centrale e nessuno, almeno per ora, ha pensato di mettergli le mani addosso. E allora perché combattiamo l’Afghanistan? Perché in realtà più che l’Afghanistan, il cui interesse è quasi nullo, noi combattiamo il fenomeno talebano, i costumi talebani, l’ideologia talebana. Il progetto del Mullah Omar era quello di una moderata modernizzazione del Paese mantenendo però integre le sue tradizioni. E fra queste c’è, fondamentale, che il ruolo della donna sia innanzitutto quello di fare figli e di occuparsi della famiglia. In cambio riceve una protezione pressoché assoluta. Durante i sei anni del governo del Mullah Omar non si ricorda un solo stupro e chi ci ha provato è finito sulla forca. Il suo progetto Omar lo aveva mutuato dall’Ayatollah Khomeini dal cui avvento al potere in Iran nel 1979 si può datare la nuova guerra di civiltà fra Occidente e Islam (com’è noto di queste guerre ce ne sono state anche in passato, basta pensare alle Crociate). La differenza sta nel fatto che Khomeini era un intellettuale raffinatissimo, aveva alle spalle una grande cultura, quella persiana, e aveva completato la sua esperienza con gli anni di esilio a Parigi cui lo aveva costretto lo Scià. Mentre Omar era un povero ragazzo di campagna, mai uscito dal suo Paese, e aveva applicato la teoria khomeinista in modo molto più rozzo.

Quindi la guerra all’Afghanistan talebano è stata, ed è, una guerra squisitamente ideologica che può essere presa ad emblema, per la sua chiarezza, dell’attuale scontro fra Islam e Occidente anche se nel parapiglia del Medio Oriente giocano molti altri fattori, di potere ed economici.
Se invece l’Occidente non riuscirà ad omologare a sé la donna musulmana, saranno gli islamici a prevalere con la loro massa, perché continueranno a sfornare figli mentre da noi la denatalità e l’invecchiamento non fanno che aumentare. E infine ci sommergeranno e si infiltreranno nei nostri territori piegandoci alla loro cultura, senza un grande sforzo perché la Natura non tollera il vuoto (‘horror vacui’) e un vuoto di valori non può che essere riempito da altri valori. E’ l’ipotesi Houellebecq.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 8 marzo 2017