Occultare la distruzione della Libia

Occultare la distruzione della Libia

Numan Abd al-Wahid, Internationalist 360°, 23 settembre 2020

Gli inglesi, sia di destra che di sinistra, semplicemente non vogliono riconoscere il ruolo svolto dal loro governo nel distruggere la Libia e la conseguente crisi migratoria. “La distruzione della Libia ha causato il primo flusso migratorio dal Mediterraneo verso l’Europa”. The Strange Death of Europe di Douglas Murray identifica tre ondate migratorie verso l’Europa occidentale nel periodo postbellico. Inizialmente, la migrazione in Gran Bretagna e Francia proveniva dalle ex-colonie, per aiutare la ricostruzione negli anni ’50 e ’60. Anche altri Paesi dell’Europa occidentale invitarono persone da altrove per la ricostruzione. In secondo luogo, un’ondata di cittadini dell’Europa orientale arrivò negli anni ’90 e 2000 a causa dell’ampliamento dell’Unione europea. Il libro di Murray fu scritto sulla scia della terza e ultima ondata migratoria dell’ultimo decennio, aggravata dall’annuncio della cancelliera tedesca Angela Merkel, nell’agosto 2015 che accoglieva i rifugiati dalla guerra in Siria. In contrasto con la decisione di Merkel di consentire ai rifugiati siriani di entrare in Germania, Murray osserva che i Paesi che alimentano la guerra in Siria non erano ospitali come le nazioni europee. Scriveva: “In tutta la parte siriana della crisi dei rifugiati, quasi nessuno ha accusato i Paesi effettivamente coinvolti nella guerra civile, inclusi Iran, Arabia Saudita, Qatar e Russia, per il costo umano del conflitto. Non c’era ampio appello europeo all’Iran per accogliere i rifugiati dal conflitto, più di quanto non ci fosse pressione per insistere sul fatto che il Qatar avesse la giusta quota di rifugiati “. [i]
Prendiamo Murray in parola e mettiamo da parte le indicazioni di sostegno britannico ai cosiddetti ribelli siriani già nel 2012. Se si legge tra le righe tale estratto e si scompone ciò a cui si riferisce come “porzione siriana”, abbiamo di fronte l’altra parte della crisi migratoria. Vale a dire, quella stimolata dalla campagna della NATO per rovesciare il Colonnello Ghadhaffi in Libia. La cosiddetta “primavera araba”, iniziata col rovesciamento relativamente pacifico dei governi di Tunisia ed Egitto all’inizio del 2011, fu seguita da una rivolta a Bengasi, nella Libia orientale, che rapidamente divenne rivolta. I media occidentali inventarono scenari su come Gheddafi fosse sul punto di compiere massacri dopo massacri se l’occidente non fosse intervenuto. Così, il collega etoniano di Douglas Murray, David Cameron, allora primo ministro britannico, guidò la campagna globale militare in Libia nel 2011 per prevenire questa presunta orribile punizione. Cameron fu sostenuto negli appelli a intervenire in Libia da tutti i media britannici. Soprattutto quelli di destra cui Murray attualmente da ai lettori le sue opinioni. Nel 2011, il Daily Telegraph voleva vedere un’azione militare a sostegno dell’“opposizione” contro il Colonnello Gheddafi. Ad esempio, all’inizio di marzo 2011, la spinta inglese a bombardare la Libia fu mascherata come iniziativa occidentale: un rapporto affermò che “l’occidente è pronto a usare la forza contro Gheddafi” perché per Cameron, “… La caduta di Gheddafi fu la“ massima priorità ”della Gran Bretagna, aggiungendo: “Se aiutare l’opposizione in qualche modo riuscisse ad ottenere questo risultato, è certamente una cosa che dovremmo considerare… In quanto tali individui vicini all’esercito inglesi informarono i lettori che era pronta la “missione libica””. I piani d’intervento inglesi si scontrarono con un ostacolo, secondo Christopher Hope del Telegraph, quando altri leader mondiali rifiutarono l’idea. Qui Obama fu chiaramente individuato come ostacolo alla spinta inglese all’intervento militare o piuttosto a una no-fly zone. L’11 marzo 2011, un altro rapporto del Daily Telegraph apertamente mise in dubbio la natura della strategia di Obama: “È vigliaccheria? È indecisione? O è diplomazia intelligente?” prima di concludere che a causa delle “dimensioni e potenza militare degli USA, il presidente nordamericano non ha la possibilità di rimanere neutrale sempre…” Come tutti sappiamo, la Gran Bretagna ha sempre saputo cosa sia meglio quando si tratta quale direzione dovrebbe prendere la politica estera nordamericana.
Un articolo sul Sunday Telegraph del 13 marzo confrontò l’impulso di Cameron ad intervenire in Libia con la “paralisi” di Obama. L’autore continuava a “sperare” che Obama “segua l’esempio di Cameron, poiché Clinton ha seguito l’esempio di Blair in Kosovo”. Tuttavia, l’autore ebbe l’onestà di sostenere che nell’interesse della Gran Bretagna: “L’argomento della Libia non è puramente o addirittura principalmente umanitario, tuttavia. Anche se si mette da parte l’importanza come nazione produttrice di petrolio, la Libia rimane centrale negli interessi strategici e commerciali della Gran Bretagna nella regione”. È del tutto naturale che l’editoriale del Telegraph nei successivi due giorni era che il “silenzio” di Obama “danneggia l’occidente” (l’”occidente” era la metafora generica che significa interessi inglesi. Uno dei modi in cui il silenzio danneggiava l’”occidente” è perché: “… restare fuori dalle liti altrui nella regione più instabile e ricca di petrolio del pianeta non è una politica estera realistica”. Inoltre, Daily Telegraph indicò che Cameron trovava “frustrante” lavorare con Obama. [ii] Ciò è confermato nell’autobiografia di Cameron dove scrive senza scusanti di voler istituire la no fly zone per impedite il presunto possibile massacro, ma scoprì che Obama era d’ostacolo e doveva essere convinto ad intervenire militarmente in Libia. Nel 2016, un rapporto del parlamento inglese sull’intervento in Libia ammise di “non poter verificare l’effettiva minaccia ai civili rappresentata dal regime di Gheddafi; scelse elementi nominali dalla retorica di Muammar Ghadhaffi… “e che il governo britannico”, non identificò l’estremismo islamista nella ribellione”. Quindi, si basò su “ipotesi errate”. Di conseguenza, la distruzione della Libia causò il primo flusso migratorio dal Mediterraneo all’Europa. Prima del 2011, secondo fonti aperte, la Libia era un punto di destinazione per milioni di lavoratori migranti africani. Le cifre non sono definitive, ma durante i miei viaggi in Tunisia fui informato in modo attendibile che almeno 900000 tunisini lavoravano in Libia. Altri cittadini che lavoravano in Libia prima dell’intervento della NATO erano 1,5 milioni di egiziani e 1,5 milioni dell’Africa subsahariana ed altri. Inoltre, l’intervento della NATO costrinse milioni di libici a fuggire dal Paese e a sfollarne internamente centinaia di migliaia di altri. Il quotidiano Le Monde riferì che dal 2014 c’erano 600000 – 1 milione di rifugiati libici in Tunisia.
Questa “porzione” della Primavera araba fu sottovalutata nel libro di Murray. Le ricadute umane dell’intervento di Cameron in Libia ammontarono a milioni di rifugiati. Milioni di africani tornarono nei Paesi d’origine o intrapresero il pericoloso viaggio sul Mediterraneo verso l’Europa. Un’altra dimensione dell’intervento libico fu, come sostiene lo storico Mark Curtis, l’alleanza di fatto tra i bombardamenti di Gran Bretagna e Francia e combattenti islamisti. Inoltre, secondo Curtis, la Libia post-Gheddfi divenne centro di addestramento dei jihadisti poi mandati in Siria. Circa 3000 combattenti tunisini e libici si recarono in Siria per unirsi a gruppi di al-Qaida come Qatibat al-Batar al-Libi, fondato dai libici. Prima del 2015, Murray afferma che più persone sbarcavano a Lampedusa perché “in parte ciò era dovuto alle persone in fuga da cambi di governo e disordini civili”. [iii] Presumo fosse un modo subdolo per dire che fuggivano dall’operazione di cambio di regime di Cameron in Libia. Poi osserva che “il primo anno della Primavera araba fu un periodo particolarmente brutto per l’isola”. [iv] Niente merda, Sherlock! Tre anni dopo, nel 2014, “… l’anno prima che la crisi dei migranti” iniziasse, “170000 persone arrivarono [a Lampedusa, Malta o Sicilia]. I funzionari parlavano di risolvere il problema colmando il vuoto del governo libico” [v]. Questo vuoto arrivò per via aerea, atterrò sulle coste libiche e non ebbe niente a che fare con David Cameron.
Murray delizia costantemente i lettori su terrorismo e stupri presumibilmente commessi da migranti. [vi] Eppure, per qualche ragione, non aveva spazio o tempo per informare i lettori del terrorismo sessuale più atroce e depravato dell’ultimo decennio. Vale a dire, il governo inglese invitò centinaia di libici, che aderirono all’azione inglese contro il Colonnello Gheddafi nel 2011, in Gran Bretagna per addestrarsi nel 2014. Piccoli gruppi di tali traditori libici (o “cadetti” come li chiamava il Guardian) lasciarono le baracche di Bassingbourn per aggredire la popolazione locale e tre furono condannati per aver violentato un uomo. Infatti, da quando arrivarono nell’estate 2014, la polizia fu costretta a condurre “frequenti pattugliamenti presso la base di Bassingbourn poiché i residenti del vicino villaggio temevano “fughe e attacchi”.” Ci si può solo chiedere perché Murray evitò di menzionare tale pessimo episodio. Perché la colpa alla fine sarebbe stata dell’allora primo ministro britannico David Cameron? Complessivamente, sostiene Curtis, l’intervento di Cameron in Libia finora stimolava attacchi terroristici in 14 Paesi diversi, incluso il più orribile in Europa avvenuto a Parigi nel 2015. Il capo della cellula Abdalhamid Abaud degli attacchi terroristici al Bataclan di Parigi, che uccise 129 persone, fu addestrato da un gruppo nato dai disordini causati dall’intervento in Libia. Tornando al 2011, non appena Cameron guidò l’assalto per distruggere la Libia, iniziò a rullare i tamburi militari per la Siria. Ancora una volta, tale storia non viene raccontata dalla lettura di Murray della guerra in Siria. Per lui, i principali attori esteri in quella guerra erano Iran, Arabia Saudita, Qatar e Russia. Tuttavia, nel marzo 2012, Cameron volò negli Stati Uniti per tentare di convincerli ad impegnarsi ulteriormente nella guerra alla Siria. In un’intervista con Niall Ferguson lamentò la mancanza di interesse di Washington ad intervenire in Siria. Nell’estate 2012, dopo che la metà orientale di Aleppo fu invasa dall’opposizione (cioè i jihadisti), un rapporto dell’Indipendente notò che l’intelligence inglese aiutava i jihadisti indicando i movimenti delle truppe dell’Esercito arabo siriano. Affermò anche: “Si si ritiene che MI6 e CIA tacitamente permettano l’invio di mitragliatrici pesanti dai Paesi del Golfo ai ribelli… un diplomatico [allora] negò che gli inglesi “facilitassero” la fornitura di mitragliatrici pesanti. Ma… disse di non poter escludere la possibilità che appaltatori privati finanziati da Paesi come il Qatar fossero coinvolti nella fornitura di armi”.
The Strange Death of Europe cita Merkel non meno di 58 volte, mentre cita Cameron solo cinque. È abbastanza chiaro che l’obiettivo di Murray è mascherare e assolvere la colpevolezza inglese sulle crisi migratorie e conseguente caos. Per Murray, la crisi migratoria dell’ultimo decennio è imperniata e individua nella disprezzata Merkel, soprattutto dopo il discorso del 31 agosto 2015 che consentì ai rifugiati siriani di entrare in Europa. In quanto neoconservatore, sarebbe anatema per lui anche solo suggerire che la politica estera britannica, di Cameron, inviabdo l’esercito in Libia, fosse persino un fattore nella crisi migratoria. Si è costretti a chiedersi se l’obiettivo del libro sia attribuire con nonchalance, anche patologicamente, la colpa della crisi migratoria Merkel piuttosto che al suo collega etoniano David Cameron. Nella postfazione dell’edizione tascabile del libro, Murray si vanta che nessuno a da ridire sui fatti contenuti nel libro o “persino tentato di contestarli o negarli”. [vii] Forse la ragione di ciò è che molti divenuti suoi detrattori, sostennero l’intervento libico. Se dovessero sostenere che esso causò e stimolò la crisi migratoria, ciò significherebbe che il loro sostegno o acquiescenza era sbagliato. Ad esempio, i compagni di sinistra che dirigono il gruppo Stop the War Coalition, non si convinsero ad opporsi apertamente alla guerra alla Libia. Durante i sette mesi di bombardamenti della NATO organizzarono una manifestazione a Londra, a metà settimana, in cui parteciparono non più di 35 persone. Tutti i media inglesi sostennero l’intervento in Libia e quando i ribelli islamisti catturarono Gheddafi dopo che la NATO l’aveva localizzato e bombardato, lo linciarono e violentarono, e il Guardian celebrò e gongolò il giorno dopo in prima pagina, che questa era la “Morte di un dittatore”.
Organizzazioni anglo-musulmane di alto profilo erano pienamente d’accordo. L’Associazione Musulmana della Gran Bretagna, collegata alla Fratellanza Musulmana, appoggiò la NATO e il direttore estero del gruppo per i diritti umani,Cage, Muazam Biq, ex-detenuto di Guantanamo Bay, non solo sostenne l’insurrezione, ma confermò le conclusioni di Curtis secondo cui molti jihadisti libici furono la fanteria della NATO ed immediatamente formarono gruppi per il cambio di regime in Siria. Biq affermò che “molti che… avevano iniziato la rivoluzione in Libia e vi parteciparono militarmente, avevano esperienza e continuarono a creare e sostenere alcuni primi movimenti dir esistenza in Siria”. Biq inoltre spiegò che quando era in Libia nel 2012, l’allora primo ministro turco Erdogan visitò e tenne un discorso che registrò. Erdogan disse ai libici “oggi la Libia, ghaddan (cioè domani) la Siria”. Chiarì il suo appoggio al cambio di regime… “da fare in Siria, come fu fatto in Libia”. Prima di recarsi in Siria, Biq incontrò l’agenzia d’intelligence inglese MI5.
Inoltre, un intero movimento socioculturale di intellettuali accademici associato allo studio della resistenza all’imperialismo occidentale nel Sud del mondo nelle università occidentali tacque. Il professor Laleh Khalili definiva Murray “razzista elegante e disinvolto”, ma battutine come questo sono molto più facili da esprimere che porre domande per approfondire la propria acquiescenza all’intervento militare in Libia. L’attuale nemesi di Murray, il professor Priyamvada Gopal si limita a denunciare e classificare come “gheddafista” chiunque metta in dubbio la cosiddetta ribellione in Libia o l’intervento della NATO. È incredibile come questi e molti altri intellettuali fossero reticenti mentre un Paese africano veniva distrutto dalla NATO creando milioni di rifugiati, libici e non libici, eppure si vantano di come le loro pubblicazioni celebrino la resistenza all’imperialismo occidentale o di come utilizzano citazioni da “How Europe Underdeveloped Africa” di Walter Rodney. Nonostante tutti i difetti, la Libia di Gheddafi aumentò l’aspettativa di vita da 51 a 74 anni. L’analfabetismo fu spazzato via e il problema dei senzatetto era pressoché inesistente. Il reddito medio pro capite era tra i più alti in Africa, 16500 dollari. [viii] In realtà sostenne Nelson Mandela e l’African National Congress nella lotta contro l’apartheid in Sud Africa. Ma tutto questo non significa nulla per questi e altri guerrieri culturali sistematisi nelle torri d’avorio occidentali che scambiano continuamente litigi coi passanti nel cortile della scuola con minacce al loro posto di lavoro. Inoltre, nella postfazione del libro Murray copre brevemente l’omicidio di 22 persone a Manchester da parte di un terrorista che sembra fu addestrato in Libia. È del tutto naturale che Murray non porti all’attenzione dei lettori che la famiglia del terrorista se ne andò rapidamente da Manchester, dove le fu concesso esilio, unendosi alla ribellione in Libia contro il Colonnello Ghadhaffi e che vi sarebbe stato addestrato dopo che la Libia divenne terra di nessuno dei gruppi jihadisti in guerra per il territorio.
In conclusione, l’intervento di Cameron è simile al colpo di Stato in Iran del 1953, anch’esso avviato e guidato dagli inglesi. Il primo ministro iraniano Mossadegh tolse l’industria petrolifera dalle mani della multinazionale inglese nazionalizzandola. Gli inglesi allora convinsero i nordamericani per garantirsi il rovesciamento di Mossadegh. Le ripercussioni del colpo di Stato del 1953 portarono non solo alla rivoluzione iraniana, ma anche all’ascesa dei movimenti militanti in Germania come la Fazione dell’Armata Rossa. Se allora non ci fosse stata la rivoluzione iraniana, non ci sarebbe stata la guerra Iran-Iraq e il resto è storia. [ix] Come col colpo di Stato in Iran, gli inglesi, di destra e di sinistra, semplicemente non vogliono riconoscere e persino nascondono il ruolo del governo britannico nella distruzione della Libia e nelle crisi migratoria derivatane. Finora, l’intervento libico portò a una pioggia di migranti in Europa, e la missione in Siria per il cambio di regime portò ad altri rifugiati e attentati terroristici in Europa. Chissà dove andrà a finire il loro ritorno. Inoltre, secondo Murray, i migranti si riversano in Europa perché vogliono uno standard di vita migliore, ricevere sostegno statale e perché il continente è molto più pacifico e tollerante di altri posti nel mondo. [x] O evidentemente può darsi che nell’ultimo decennio i migranti sono accorsi in Europa perché gli interventi militari degli inglesi (in collusione con jihadisti e Stati che li sostengono) hanno distrutto i loro Paesi e non ebbero scelta se non cercare un altro posto dove vivere.

[i] Douglas Murray, “The Strange Death of Europe: Immigration, Identity, Islam” (London: Bloomsbury Continuum, 2018), pag. 159
[ii] Per un resoconto dettagliato della richiesta d’intervento militare da Telegraph e Times, vedasi Numan Abd al-Wahid, “Britain’s Libya Adventure“.
[iii] Murray, op. cit., pg65
[iv] ibid., pg.66
[v] ibid., pg73
[vi] ibid., pg.153-4, pg.185-186, pg.194-7
[vii] ibid., pg.335
[viii] Maximilian Forte, “Slouching Towards Sirte: NATO’s War on Libya and Africa”, (Montreal: Baraka Books, 2012), pg.143-144
[ix] Numan Abd al-Wahid, “Debunking the Myth of America’s Poodle: Great Britain Wants War” (Winchester: Zero Books, 2020), pag.108-110
[x] Murray, op. cit., pag. 59

Traduzione di Alessandro Lattanzio

Preso da: http://aurorasito.altervista.org/?p=13753&fbclid=IwAR1Hk5FChNyBT-CUaqn78Qe4I2kpSH5E_iUbPHyIpexUCBSnL-lWsvoA1Ew

Italian Report on Qatari Role in Training Terrorist Groups During 2011 in Libya

August 25, 2020

Italian political analyst Giuseppe Gagliano analysed the military cooperation agreement between Qatar, Libya, and Turkey announced this month, arguing that it is part of a well-planned strategy of cooperation, training, and funding of proxy radical Islamist groups since 2011.

“Doha openly supported the Turkish military Operation Spring of Peace in north-eastern Syria to expand the influence of the Muslim Brotherhood.”— Giuseppe Gagliano

(Libya, 25 August 2020) – According to the Egyptian newspaper Al-Yawm Al-Sabi’, with regard to bilateral relations between Turkey and Qatar, the Italian political analyst Giuseppe Gagliano said: “Turkey has always supported Qatar militarily and received ample financial support in exchange. It is sufficient to recall that, for example, the deputy commander of the Ankara forces, Ahmed bin Muhammad, is also the head of the Qatari Military Academy. In other words, the training of military cadres depends on the pro-Turkish political and religious loyalty.”

He pointed out that the presence of the Turkish security forces in Qatar tangibly represents the importance of the Turkish political-military influence in Doha represented by the Tariq ibn Ziad base that embraces the command of the “Qatari-Turkish joint force.”

The report drew attention to the fact that Qatar’s arms imports from Turkey have increased dramatically allowing Ankara to obtain revenues of US$335 million. “Doha openly supported the Turkish military Operation Spring of Peace in north-eastern Syria to expand the influence of the Muslim Brotherhood,” argued Gagliano.

According to the report: “On the investment side, Qatar has disbursed US$15 billion since 2018 and purchased a 50% stake in BMC, a Turkish armored vehicle manufacturer. There is also the state-controlled military software company in Ankara, which has signed a partnership agreement with Al-Mesned International Holdings in Qatar for a joint venture specializing in cyber-security. However, one of the most important agreements to rectify the ailing Turkish  economy is that of 20 May thanks to which the Turkish Central Bank announced that it had tripled its currency exchange agreement with Qatar.”

The Italian analyst added: “As regards Libya-Qatar relations, Doha took advantage of the political weaknesses of both the European Union and the UN. Furthermore, the relative US disengagement from the Middle Eastern theatre – given that the Trump administration’s priorities are China, the Indo-Pacific, and Russia – have in fact granted an undoubted strategic advantage to Doha.”

On Libya, Gagliano said, “Taking advantage of this situation of instability, Qatar has tried to exploit this propitious opportunity to gain greater weight and significance at the geopolitical level in Libya. Precisely for this reason, Qatar’s military presence in the 2011 conflict, alongside NATO, was certainly significant not only thanks to the use of air force but also through the training of Libyan rebels both on Libyan territory and in Doha. We should not also forget the relevant role that their special forces played in the final assault against Gaddafi.”

Qatari Emir, Tamim bin Hamad Al Thani, kissing the forehead of the radical Islamist cleric Yusuf al-Qaradawi who lives in Doha.

He continued, “With the fall of Gaddafi’s regime, Qatar recognized the National Transitional Council as a legitimate political institution and supported it at all levels. Another leverage, and at the same time a means of penetration into Libya, was certainly the brothers Ali Sallabi and Ismail al-Sallabi persecuted by the Gaddafi regime. In particular, Ali Sallabi is certainly one of the most important men linked to the Muslim Brotherhood. Another key man for Qatar was certainly Abdel-Hakim Belhaj, considered by both the CIA and the US State Department as a dangerous terrorist as leader of the Libyan Islamic Fighting Group (LIFG).”

Qatar’s Hamad al-Marri with the Emir of the Libyan Islamic Fighting Group (LIFG), Abdel-Hakim Belhaj and Mahdi Harati in August 2011.

According to the article: “Qatar invests heavily in the reconstruction of Tripoli’s military infrastructure. Indeed, it is not a coincidence that the Qatari delegation that recently visited Tripoli comprised military advisers and instructors who held meetings with their Libyan and Turkish counterparts.”

Source: https://almarsad.co/en/2020/08/25/italian-report-on-qatari-role-in-training-terrorist-groups-during-2011-in-libya/

After Entry in Bab al-Aziziyah in 2011, Qatar’s Al-Marri Returns to Tripoli with Turkey and GNA

The controversial and sinister Qatari Special Forces officer Hamad al-Marri, who is wanted on charges of terrorism by the Artab Quartet, has resurfaced in the capital Tripoli when he entered Tripoli for the first time in 2011 to overthrow Muammar Gaddafi. However, today, he is a visitor through the offices of the Government of National Accord (GNA) and Turkey.

Qatari Special Forces officer Hamad al-Marri,

(Libya, 17 August 2020) – Although his name and identity were not announced to the media as being part of the delegation, Al-Marsad managed to identify Qatar’s Hamad al-Marri whose full name is Hamad Abdullah bin Fatees al-Marri from the photos of the delegation that accompanied the Qatari Defense Minister to Tripoli, Khalid al-Attiyah—despite wearing a military uniform and covering half of his face with a military cap.

Qatar’s Hamad al-Marri sitting near Qatari Defense Minister to Tripoli, Khalid al-Attiyah at the meeting at Al-Mahary Hotel in the present of the State Council’s Khaled Al-Mishri.

Al-Marri appeared in these pictures during a meeting of the Qatari and Turkish defense ministers with the Head of the High Council of the State, Khaled al-Mishri, at Al-Mahary Hotel, accompanied by the Undersecretary of the GNA’s Ministry of Defense, Salah al-Din al-Namroush.

WHO IS HAMAD AL-MARRI?

Hamad al-Marri was the Qatari officer responsible for the joint Qatari Special Forces, both arming and conducting special operations in Libya in 2011. He was also closely associated with the Emir of the Libyan Islamic Fighting Group (LIFG), Abdel-Hakim Belhaj (also known as Abu Abdullah al-Sadiq), whom he brought to the Bab al-Aziziyah camp on 20 August 2011, as shown in this footage. Al-Marri was later promoted as a reward for his work in Libya with the Islamist insurgents.

At the time, the Qataris showcased Belhaj as the “liberating commander” of Tripoli which aroused the discontent of many revolutionaries, especially the Zintan fighters who knew that Belhaj did not deserve such credit and the completely false publicity given to him by Al Jazeera and various other Islamist networks. The Zintanis were suspicious of the media campaign around Belhaj and as the Libya revolution progressed they were proved right.

One of those who was suspicious of Qatar’s intentions and its role at the time was Osama al-Juwaili who, ironically enough, today was among those who received the Qatari and Turkish delegations that includes al-Marri at Mitiga airport in Tripoli. Some leaders from the Zintan and other cities, and even from the former Transitional Council, its executive office, and even the former regime, accused al-Marri and Belhaj of stealing the Libyan state security archive.

Qatar’s Hamad al-Marri with the Emir of the Libyan Islamic Fighting Group (LIFG), Abdel-Hakim Belhaj and Mahdi Harati in August 2011.

Moreover, al-Marri on the day of the entry into Tripoli in 2011 was carrying his weapon when he reopened the Qatari embassy in Tripoli with other officers of the Qatari forces. Furthermore, he placed the Qatari flag on the monument of the US raid in 1986 located in the headquarters in Bab al-Aziziyah in such a insulting and provocative manner, the footage of which Libyans have never forgotten or forgiven.

 

Al-Marri is also accused in Tunisia of opening suspicious bank accounts to carry out sabotage operations and pay bribes. Since 2017, Tunisia has placed his name on the lists of those banned from entering its territory according to a Tunisian parliamentary investigation.

The Qatari opposition describes al-Marri as the “thug” of the Special Forces and the arm of the Emiri Diwan for secret operations, including funding in various such as Syria through his dealings and support for al-Nusra Front as admitted by Qatar.

Al-Marri also played a prominent role in supporting Operation Libya Dawn with money and weapons, as well as the collapsed Shura Councils in Benghazi and Derna. He is also on the terrorist lists issued by the Arab Quartet on charges of secret communication with the Houthi militia in Yemen, which led to the killing of Arab soldiers while Qatar was part of the Coalition to Support Legitimacy in Yemen before its withdrawal therefrom and later siding with the Houthis and Iran.

Source:https://suriyayahabibati.wordpress.com/wp-admin/post-new.php

New Evidence Suggests Turkey Preparing for Libya-Style Military Intervention in Yemen

Ahmed Abdulkareem
Turkey Yemen Feature Photo

Turkey is sending advisors and weapons into Yemen and flexing its influence in the war-torn country as it seeks to expand its power across the Middle East.

ADEN, YEMEN — As focus begins to turn to developments in Libya and the foreign interference that plagues the Arab country, it seems that Turkey already has its eye elsewhere, preparing for military involvement in Yemen in a move that has sparked concern among Yemenis already struggling against an intervention led by Saudi Arabia, famine and most recently, COVID-19.

Informed sources in Aden and Taiz revealed to MintPress that a militia belonging to the Muslim Brotherhood-affiliated El-Eslah Party, the ideological and political ally of Turkish President Tayyip Erdogan, is already engaged in the latest round of fighting in Yemen’s southern provinces, particularly in Abyan and Shabwa.

The Turkish intervention, which extends to Marib – an oil-rich province located 173 kilometers to the northeast of Ansar Allah-controlled Sana’a, has so far been led by officers, experts, and training personnel, and has involved the delivery of weapons, including drones, for use by Turkish allies on the ground. The move paves the way for wider intervention in Yemen that would resemble Turkey’s role in Libya in favor of The Government of National Accord, which is currently battling General Khalifa Haftar’s forces for control over the country.

The Turkish officers and advisors in Yemen are lending comprehensive support to El-Eslah’s militants who have been fighting against the Southern Transitional Council (STC) in Abyan since April 26, when the STC imposed emergency rule in Aden and all southern governorates.

Beginning in 2018 and ‘19, dozens of Turkish officers and experts reportedly arrived in many Yemeni areas overlooking the Red Sea and Arabian Sea, particularly in Shabwa, Abyan, Socotra, al-Mahra and coastal Directorate of Mukha near the Bab al-Mandab Strait as well as to Marib. The officers reportedly entered Yemen as aid workers under pseudonyms using Yemeni passports issued illegally from the Yemeni passport headquarters in the governorates of Ma’rib, Taiz, and Al-Mahrah.

Recently, Ankara trained hundreds of Yemeni fighters in Turkey and in makeshift camps inside of Yemen. Moreover, Turkey recruited Libyan and Syrian mercenaries to fight in Yemen bty promising them high salaries to fight for the Muslim Brotherhood in the southern regions and along the western coast of Yemen, according to sources that spoke to MintPress.

One of those sources said that a group of mercenaries was supposed to enter the country last week in a Turkish plane carrying “aid and medicine related to coronavirus pandemic” but the Saudi-led coalition prevented the plane from landing at Aden’s airport. Now, sources say, Turkish intelligence and its allies in Yemen are working on a strategy to enter the country by pushing for eased travel restrictions under the guise of fighting coronavirus.

Yemeni politicians told MintPress that Turkey wants to reach the strategic port of Balhaf and secure for use as a hub to export gas and oil and to control the open coasts of the Arabian Sea and Bab al-Mandab Strait for later use as a gateway for Turkish intervention in the region. Turkish control in those areas would provide access to support and supply Turkish military bases in Somalia and Qatar.

This information provided to MintPress was confirmed by the London-based Syrian Observatory for Human Rights and Libyan Army spokesman Maj. Gen. Ahmed al-Masmari, who is recruiting Syrian and Lybian mercenaries with attractive salaries to fight with the Muslim Brotherhood in Yemen. At this point, both the Saudi-led Coalition and Turkey have exploited the Yemeni poor, recruiting them to fight in both Libya and Syria.

In Taiz, Turkey has opened training camps, the most important of which is located on the outskirts of the al-Hajariya Mountains near the Bab al-Mandab Strait and is run by Hamoud al-Mikhlafi who resides in Turkey and regularly visits Qatar. Al-Mikhlafi also established the “Hamad Camp” in the Jabal Habashi District. Shabwah, and Marib have also received Turkish support.

Ankara has successfully boosted its intelligence presence in Yemen through the use of Turkish humanitarian aid organizations. There are many Turkish “humanitarian relief organizations” operating in three coastal Yemeni regions: Shabwa, Socotra, and the al-Mukha region in Taiz governorate. Among those organizations is the Turkish Humanitarian Relief Agency (IHH) which operates in the governorate of Aden, the Turkish Red Crescent, the Turkish Cooperation and Coordination Agency (TIKA), the Turkiye Diyanet Foundation (Türkiye Diyanet Vakfı) among dozens of other Turkish organizations.

Turkey has been supporting Yemen’s El-Eslah Party, founded in 1990, since before the Saudi-led Coalition launched its offensive in Yemen in 2015. Similar to its support for the Government of Accord in Libya, El-Eslah has gained additional momentum in recent years given the power and money it has received from both Turkey and members of the Saudi-led coalition.

An ally in El-Eslah

In a related event, high-ranking government officials from Turkey have traveled to Yemen to develop strategic interests and conclude agreements which could allow Turkey to resort to military force to protect its interests in the country. ln January 2019, Turkey’s deputy interior minister, Ismail Catakln traveled to Aden and held a meeting with high-ranking officials from the El-Eslah party, including Maeen Abdulmalik Saeed, who has been appointed “Prime Minister of Yemen” by ousted President Abdul Mansour al-Hadi on October 18, 2018.

According to a joint official statement, a number of agreements were concluded at the meeting involving humanitarian aid, health and education, economic and service projects, as well as an agreement to activate the joint committee between Yemen and Turkey. The most important agreement was a security and intelligence agreement between the Deputy Prime Minister and Minister of Interior Ahmed Al-Misri, a member of El-Eslah party.

This came months after “former Yemeni Transport Minister” Saleh al-Jabwani, a Reform Party affiliate, visited Turkey to sign agreements to hand over Yemeni ports, an agreement that was rejected by “Yemeni government officials” belonging to the Saudi-led coalition.

Prior to that, El-Eslah party officials and ministers have taken trips to Turkey to lobby AKP officials and encourage them to invest in Yemen’s transport sector and ports.

Saudi Coalition reels as Turkey ruffles feathers

It is unlikely that Yemen is currently Turkey’s first priority in the region as it has already established a base in Djibouti and has a presence in both Somalia and Sudan, where Ankara has been granted temporary control of Sudan’s Suakin Island, providing it an important foothold into the Red Sea. But Turkey’s efforts in Yemen not only grant it expanded influence in the Bab al-Mandab Strait and the Red Sea but also with influence in the Arabian Sea.

From the perspective of Saudi Arabia and the United Arab Emirates, who are already at odds with Turkey, the presence of Turkish forces in Yemen could be a real threat to their interests. Moreover, a Turkish presence could serve as a very effective trump card for Turkey’s close ally Qatar, which has had a hostile relationship with these countries since the UAE, Saudi Arabia, Bahrain and Egypt broke ties with Doha in 2017. Furthermore, Turkey’s efforts, particularly in the Bab al-Mandeb Strait, are a threat to Egyptian national security. Egypt is also at odds with Turkey due to Ankara’s support for the Muslim Brotherhood and competition for resources in the Eastern Mediterranean.

The Turkish project in Yemen has given new zeal to the Saudi-led Coalition in its efforts to control Yemen’s islands. This week, Eritrean forces supported by the United Arab Emirates launched a military attack to take Yemen’s Hanish Islands in the Red Sea on Tuesday. The attack comes amid renewed tensions that have seen Yemenis that attempt to approach the Islands, even fishermen, arrested by Eritrean forces.

The proactive move by Eritrean President Isaias Afwerk is no surprise as Afwerk rejected previous Turkish efforts to establish a presence on the Sudanese island of Suakin. Eritrea briefly occupied the Hanish Islands in 1995 before retreating after the international arbitration court granted Yemen sovereignty over them.

A fiery clash in Yemen between the Saudi-led coalition and Turkey could be inevitable as the coalition seeks to dominate the Yemeni arena and eliminate Turkish interests there. It is also unlikely Turkey will abandon its allies and geostrategic ambitions in Yemen, as it refused to do in Libya or Syria. Unfortunately, the biggest losers in this scenario are the Yemeni people and their lands.

A quagmire for the would-be invader

Yemenis for their part are concerned about potential Turkish military intervention in their country. They say any additional foreign interference will complicate the situation and eliminate the hope of ending the conflict for dozens of years. Indeed, Yemen is already grappling with COVID-19, a collapsed healthcare system, and an ongoing Saudi-led coalition war and blockade.

However, Ansar Allah and its allies, as well as major parties in Yemen allied with the Saudi-led Coalition, have warned that Turkey’s military intervention in the country will be considered blatant aggression ad will be met by fierce military resistance. They urged the Turks to learn from the coalition’s failed experience and their own history which saw the Ottman Turks lose thousands of troops in Yemen during their ancient forays.

Yemeni Hussein al-Qwabari promised an armed struggle against any Turkish involvement in his country. He got upset when asked if he supports conditional Turkish intervention in Yemen. Al-Qwabari wons a home in Mathbah, which translates roughly into “The Alter.” Mathbah is so named for a famous incident in which thousands of Turkish soldiers were massacred by Yemeni resistance forces and al-Qwabari says he is enthusiastically prepared to repeat the experience of his grandparents in their armed struggle against the Turks.

In fact, the issue of Turkish interference in Yemen is a sensitive topics which provokes national fervor, especially among those old enough to remember the painful experiences of previous intrusions. The Ottoman Turkish Empire reduced Yemen, particularly the north, to a poor and backward vassal state.

There is good reason that Yemen has gained a reputation as a quagmire for would-be invaders. Yemen was not only conquered by the Ottomans Turks once but twice. The first time was in the sixteenth century under the pretext of thwarting Portuguese ambitions and saw Ottoman forces unable to capture the whole of Yemen. The Turks sent more than 80,000 soldiers to suppress local uprisings against foreign intervention but only 7,000 Turks returned home. The Turks returned in the nineteenth century and were again expelled in the 1910s.

However, many Yemeni activists belong to El-Eslah, including high-ranking officials in the party as well as journalists, have increased calls to make room for Turkey in Yemen, citing the gains made in Libya by groups supported by Turkey,

“We want Turkish intervention in Yemen,” Anis Mansour, the former Media attaché at the Yemeni embassy in Saudi Arabia said in a video posted from Turkey in which he spoke in front of the infamous Hagia Sophia. Mansour runs a network of social media activists and lives in Qatar. Supporters of Turkish intervention among Yemenis stems from the hope that Turkish military activities could stem Saudi and Emirati ambitions in the country and end the chaos and tragedy left by the coalition. They believe that the Turks can end the war and return the former government to Sana’a. Other Yemenis believe that Turkish intervention will be little more than an alternative to Saudi intervention and will do little to change the situation on the ground.

Yemenis collectively have not forgotten their experiences during both British and Turkish intervention. They are well-acquainted with outside forces that yearn for Yemen for its geographic location more than for its people. Today, they are experiencing another intervention, led by the richest countries in the world. They see neighbors that share a common language and faith do nothing while they are killed by hunger, disease, and incessant bombing.

This has ultimately caused an opening for Turkey as war-weary Yemenis may be amenable to a new foreign invader provided that their rights, sovereignty, and independence are respected.

Feature photo | Fighters of the ‘Shelba’ unit, a militia allied with the U.N.-supported Libyan government, aim at enemy positions at the Salah-addin neighborhood front line in Tripoli, Libya, Aug 31, 2019. Ricard Garcia Vilanova | AP

Ahmed AbdulKareem is a Yemeni journalist. He covers the war in Yemen for MintPress News as well as local Yemeni media.

Turkish Ambitions in Libya Extend to the Sahel and Sahara Countries

https://i.alarab.co.uk/styles/article_image_800x450_scale/s3/2020-05/boc1.jpg?N2ua2x9k_nXkdV76jONEqeKAAJyPmEkg&itok=IgV6ybwgIn recent months, Ankara has put its full weight behind the financial and military support of the Fayez al-Sarraj government. In light of the unanimity that the Turkish goal is to protect the project of political Islam in Libya and throughout North Africa, its second dream transcends Libya and goes further in considering expansion throughout the Sahel and Sahara countries by seeking to secure the southern gate. There is a trend towards Chad based on the extremist groups supported by Ankara and Doha.

CAIRO – Whoever thinks that Turkey’s ambitions will stop at Libya or North Africa is mistaken. It is more than wrong to imagine that the ties that brought together Ankara and terrorist organizations are limited to penetration in Arab countries.

The Turkish system paved the way for its Islamic project years ago in Africa, and began to prepare the soil with soft and rough tools. The first was the weapon of aid.  The latter was to embrace militants and provide them with logistical support that enabled them to penetrate local fronts across the continent.

Supporting terrorism to establish influence in Africa
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Perhaps many did not pay attention to the depth and details of the infrastructure links between Turkey and the extremists in countries such as Chad, Niger, Mali, Nigeria, Cameroon, and others, because the Qatari interface diverted their gaze. Monitoring focused on the relations that link Doha and extremist movements operating in these countries, and Qatar was caught red-handed providing support and numerous charges were brought against it, until evidence revealed the joint role of Turkey and Qatar in Libya and the attendant expectations regarding the willingness Ankara to extend its influence beyond the Libyan borders.

The environment near Libya seems ripe for closer cooperation and coordination between Ankara and the broad spectrum of active terrorist organizations, which have increased their movements during the past weeks in conjunction with the increasing Turkish presence in Libya, and gained new areas of land and influence as major powers were engaged in fighting Corona,  mitigating campaigns against extremists. All which aided the Turkish  agenda as Ankara launched expanded campaigns on new fronts, granting the takfiris a greater opportunity for freedom of movement beyond Libya’s borders. The Boko Haram group, which was originally born in Nigeria, began to be seen extensively in the area known as the countries of the Chad Basin, as if it received a signal of this further expansion becoming a tangible reality, and moved to achieve victories in conjunction with Turkish gains in Libya.

The Chadian army was able to pursue many terrorist elements supported by Ankara and Doha
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It succeeded in dragging the Chadian army into direct engagement, relieving pressure on the southern Libyan front, which turned into an open theatre of differentiated Chadian forces, and a source of supply for mercenaries to fight the wars in which the Tripoli government was involved.

Chad has become a central target of the Boko Haram and fierce battles have occurred between the Chadian forces and elements belonging to this group, in which dozens of victims have fallen on both sides. The main objective was to place the Chadian Front over a volcano of successive tensions and revive the role played by extremist movements who suffered losses at the hands of the Libyan National Army forces two years ago in cooperation with the tribes there.

Chad has a bitter history with the extremists, and Qatar, Turkey’s stepdaughter, is the equation that controls them.  They cut ties with Doha in August 2017, closed its embassy in N’djamena, and called on Qatar to desist from all actions that undermine the security of Chad, as well as the security of the countries of the Lake Chad Basin and the coast, accusing Doha of trying to destabilize Chad through Libya.

Hard-line organizations maintain a degree of inter-party differences but they overcome them when they face a single opponent, and this is the strategy Turkey has employed with some success in Syria, which ultimately enabled them to maintain an ideological umbrella for all the various Takfiri factions.  They are repeating this game in the Sahel and Sahara countries. Even with the battles that have taken place between al-Qaeda and ISIS in Mali or elsewhere, it is easy for Turkey to contain them because tactical interest demands it.

The observer discovered that this project was being prepared at an accelerated pace years ago, when Qatar and later Turkey extended the lines of cooperation with the opposition factions in Chad, Sudan, Mali and Nigeria, sometimes under the pretext of sponsoring negotiations aimed at achieving peace, and another times through various channels to deliver support to terrorists. Local governments have become fragile, unable to confront the plot, and some have weakened to the point of bowing to external pressures, and accepting the opening of lands for the so-called soft powers that are merely a cloak for Turkish intelligence services to operate behind.

Ankara has a  network of terrorists in the Sahel and Sahara region. Now Turkey is sending thousands of Syrian terrorists to add to the generous African stockpile, linking its members through a complex network of interests in which the local dimensions coincide with the regional.

Al Arab

Translation by Internationalist 360°

Si sapeva da anni, ma i media lo scoprono adesso: Libia, blindati turchi a milizie di Misurata: violato l’embargo Onu

Libia, blindati turchi a milizie di Misurata: violato l’embargo Onu

Lo ha riferito oggi il quotidiano ‘Asharq al-Awsat’
ROMA – Sono le milizie di Misurata le prime beneficiarie dei blindati consegnati nel fine-settimana nel porto di Tripoli da una nave battente bandiera turca: lo ha riferito oggi il quotidiano ‘Asharq al-Awsat’, che ha citato fonti militari in Libia.

Secondo questa ricostruzione, alcuni dei 30 veicoli giunti a bordo della Amazon Giurgulesti sono stati assegnati in dotazione anche alla Brigata Al-Nawasi e a milizie “estremiste” come Usama Al-Juwaili.
Della consegna dei blindati a beneficio dei combattenti di Misurata, fedeli all’esecutivo di Fayez Al-Serraj, si è scritto nel fine-settimana. In evidenza sulla stampa locale e internazionale il dato della violazione dell’embargo sulle armi approvato dall’Onu nel 2011 ma già bypassato più volte, con denunce rivolte tra gli altri a Emirati Arabi Uniti, Qatar, Francia ed Egitto. Il contesto, dal 4 aprile scorso, è quello dello scontro alle porte di Tripoli e in altre zone della Libia tra le forze di Al-Serraj e l’Esercito nazionale che fa capo al generale Khalifa Haftar.

Perché la Libia non sta né con Serraj né con Haftar

dicembre 2018

di Barbara Ciolli

Libia guerra dopo Gheddafi Derna Haftar Bengasi
Libia guerra dopo Gheddafi Derna

 Il premier della Fayyez al Serraj e il generale Haftar si contendono il Paese alla vigilia del voto.
  Il premier della Fayyez al Serraj e il generale Haftar si contendono il Paese 
 
È diventata una consuetudine che quando il premier Fayyez al Serraj, riconosciuto dalla comunità internazionale come primo interlocutore politico della Libia, va all’estero si tentano assalti ai palazzi delle istituzioni di Tripoli. Ogni occasione è buona per rovesciare l’assetto di comando, vista la fragilità dell’esecutivo che di fatto governa – e detta legge attraverso le sue milizie di un cartello ormai criminale – solo la capitale: le brigate escluse dalla torta non aspettano altro ed è forte ormai, per le ristrettezze vissute ormai da anni da una parte crescente della popolazione, anche il malcontento popolare. L’ultima sommossa è stata più civile, perché a rompere il cordone di sicurezza e a entrare nel palazzo del Consiglio presidenziale di al Serraj non sono stati gruppi armati con mitragliatori e bombe, ma centinaia di manifestanti, cittadini arrabbiati che hanno vandalizzato il palazzo del governo.

IL CONFLITTO TRA ISLAMISTI

A calmare le famiglie dei veterani e dei feriti di guerra che protestano per il ritardo nel pagamento dei sussidi e per la mancanza di assistenza medica, mentre al Serraj era in visita di Stato in Giordania, è stato il vice premier Ahmed Maitig, noto per parlare bene l’italiano e dialogare molto con Roma e, in Libia, anche per essere stato bersagliato anni fa con dei lanciarazzi in casa. Nei mesi scorsi sono state attaccate anche le residenze di altri vice di al Serraj e dello stesso premier, mentre a Tripoli esplodevano a più riprese scontri tra milizie per divisioni ormai non solo tra il blocco sommariamente definito laico del generale Khalifa Haftar, che comanda di fatto il Sud e l’Est della Libia, e il blocco sommariamente definito islamista che formò il governo di al Serraj. Il conflitto ora è soprattutto interno agli islamisti: Misurata e altri Comuni che nel 2014 erano nel movimento Alba libica sono sempre più insofferenti verso le ruberie e lo strapotere dei tripolini.
Libia guerra dopo Gheddafi Derna Serraj © GETTY Libia guerra dopo Gheddafi Derna Serraj

I SOLDI DEL PETROLIO ALLE LOBBY

Tra i manifestanti che hanno assaltato la sede del governo c’erano anche diversi ex combattenti di Alba libica. La disaffezione verso la politica è forte, perché, spiega a Lettera43.it lo scrittore e giornalista libico Farid Adly, «una parte ingente dei grandi introiti del petrolio, attraverso la Banca centrale libica che non a caso dal 2011 non ha mai messo di funzionare, va a finire ogni mese in sussidi e lauti stipendi pubblici a cittadini libici legati al governo o alle milizie rispondenti ai ministeri». Un fiume di soldi, oltre ai gruppi armati, raggiunge «tanti libici che vivono all’estero senza lavorare». Mentre in Libia sempre più famiglie comuni sono costrette, ormai da anni perché dal 2016 il governo di al Serraj non ha risolto nulla, a fare la fila ai bancomat per prelevare il corrispondente di poche centinaia di euro a settimana. Non c’è liquidità, i prezzi del pane e di altri beni di prima necessità sono alle stelle e la corrente elettrica salta per ore.

LA PIAGA DEL CONTRABBANDO

Diverse attività legali si sono dovute fermare, a causa della penuria e della mancanza di sicurezza, anche a Tripoli. Mentre in Cirenaica «a Derna i problemi sono tutt’altro che risolti e anche Bengasi resta colpita dal terrorismo. In Libia», precisa Adly, «ci sono ancora dei rapiti dell’Isis». Nell’Est e nel Sud della Libia Haftar ha insediato giunte militari, ma lo Stato rimane assente. Nella regione del Sahara c’è da sempre la piaga dei traffici illeciti, la sola forma di economia reale della zona, intensificati dalla caduta del regime. Tra questi, con il proliferare di vari capimilizie foraggiati dalle potenze straniere, di pari passo con il traffico di esseri umani e altri business del mercati nero, è gonfiato anche sulla costa il contrabbando del petrolio. Attraverso Malta arriva “lavato” anche in Italia: una fuga di greggio che costa alla Compagnia nazionale del petrolio (Noc) libica – attaccata a settembre 2018 dall’Isis – milioni di dollari al giorno di mancati incassi.
© GETTY Libia guerra dopo Gheddafi Derna Haftar Bengasi

L’EMBARGO FITTIZIO SULLE ARMI

Non di meno l’ex colonia italiana non collassa, lo status quo fa comodo a chi drena liquidità dalle risorse, «la loro redistribuzione non è equa» commenta Adly. La situazione è grave – sempre più grave – ma non è seria. Un altro carburante delle divisioni e della criminalità sono le armi che continuano ad arrivare dall’estero alla Libia, in violazione dell’embargo dell’Onu (rinnovato con la Risoluzione 2420 del 2018 ma lettera morta) e i finanziamenti stranieri alle milizie che taglieggiano i politici e impongono il racket nei quartieri di Tripoli. Per bloccare i migranti in Libia e tutelare lo stabilimento dell’Eni a Mellitah, con Marco Minniti ministro dell’Interno e il generale Paolo Serra consigliere militare per la Libia, fino al dicembre 2017, l’Onu, l‘Italia e di riflesso le istituzioni Ue hanno stretto un patto soprattutto con il governo di Tripoli, che intanto si isolava nel cartello di milizie della capitale.

I PASSI AVANTI VERSO IL VOTO

Misurata, capofila delle rivolte del 2011 e unico centro, in Libia, dove è a garantita una certa sicurezza, è in rotta con al Serraj e si sta avvicinando ai francesi che, rovesciato Gheddafi, tentano, con qualsiasi alleato, di allargare la loro influenza. Dopo il flop del vertice di Palermo sulla Libia, qualche timido progresso per il voto nazionale, rimandato al 2019, potrebbe venire dai contatti in Giordania tra il premier di Tripoli in visita dal re Abdullah II e gli emissari di Haftar che fa spesso base ad Amman. La Camera dei rappresentati di Tobruk, nell’Est, che fa capo ad Haftar e non riconosce il governo di al Serraj, alla fine di novembre in accordo con la controparte del Consiglio di Stato di Tripoli ha approvato il referendum per la costituzione e la riforma della composizione del Consiglio presidenziale di al Serraj, in favore di Haftar. Resta il nodo dell’incarico a capo dell’esercito, bramato dal generale di Tobruk.
© GETTY Libia guerra dopo Gheddafi Derna

LA SOCIETÀ CIVILE ALL’ESTERO

Come se agli elettori importasse delle poltrone delle milizie e dei movimenti più finanziati dall’estero che, dalle rivolte del 2011, hanno approfittato del vuoto di potere. Gli interlocutori di Tripoli e Tobruk hanno tentato o compiuto golpe e non possono essere considerati affidabili. L’affluenza alle ultime Legislative del 2014 fu del 30% e la Fratellanza musulmana alla quale fa riferimento, attraverso gli sponsor della Turchia e del Qatar, il blocco islamista di al Serraj firmatario dei negoziati di pace in Marocco dell’Onu, le perse. Il suo consenso è all’11%, una decina di altri partiti e sigle democratiche non partecipa alla politica interna, i suoi leader e intellettuali sono riparati all’estero e non vengono invitati agli incontri internazionali. La società civile è uscita dalla Libia e i leader del mondo preferiscono trattare con le milizie che stanno depredando il Paese.

Preso da: https://www.msn.com/it-it/notizie/mondo/perch%c3%a9-la-libia-non-sta-n%c3%a9-con-serraj-n%c3%a9-con-haftar/ar-BBQsEvU?fullscreen=true#image=1

Parla un giovane di Bengasi: “Gheddafi è nel cuore di milioni”.

“Scendo in strada a bruciare le bandiere italiane” il giovane Moneim ci racconta la sua rabbia.

Di Vanessa Tomassini.
“Tu sei una vera giornalista? Vorrei che tu scrivessi sul tuo giornale che Muammar Gheddafi resta nel cuore di milioni e milioni di persone, forse dire un milione è dire poco. Mi chiamo Moneim Ould Elfatih e sono di Bengasi. Visto che l’Italia è un paese democratico, voglio che scriva un messaggio agli agenti della Nato. ‘Vivo in un posto dove non possono raggiungermi e uccidermi – diceva Gheddafi – avrete ucciso il mio corpo, ma non sarete in grado di uccidere la mia anima che dimora nei cuori di milioni di persone’. Beh tutto questo era vero e non lo dimenticheremo mai. Ora noi sappiamo che l’Italia vuole la sua fetta di torta, ma non è questo il modo. Siamo molto arrabbiati ed è per questo che siamo scesi in piazza a bruciare il tricolore!”.
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A dirci questo è un giovane di 27 anni che indossa una divisa militare e un foulard verde intorno al collo nelle sue foto, dove emula il saluto del rais, con il pugno chiuso verso il cielo. Occhi e capelli scuri, Moneim è arrabbiato, come molti altri, per il via via di politici dall’Italia alla Libia, e viceversa. “Difendiamo la nostra patria, come è accaduto nel secolo scorso. Rispettiamo il popolo italiano, ma non rispettiamo il vostro Governo corrotto che vuole mettere il naso su affari che non gli riguardano. Non vogliamo nemmeno assistenza, perché aprire la porta dell’aiuto significa aprire al colonialismo”. Proviamo a spiegargli che le voci di una missione militare italiana nel sud non sono vere e che l’Italia vuole solamente fermare l’immigrazione e aiutare la Libia a proteggere i suoi confini e che bruciare la bandiera italiana non risolverà poi molto. Lo lasciamo sfogare e così ci mostra i resti dei bombardamenti della Nato, città e strade di Sirte e Bengasi completamente distrutte e residui bellici abbandonati da anni.

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Vedi questi? Sono i veicoli italiani del tempo del colonialismo, messi 
a Bengasi affinché il mondo non dimentichi”.

La visita del ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, a Tripoli, anziché calmare gli animi dopo le dichiarazioni, forse tradotte male del Ministro della Difesa e dell’Interno, ha fatto discutere ancora di più i libici per alcuni dettagli del protocollo diplomatico, come il Ministro italiano che lascia indietro il suo omologo libico.
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Durante la sua missione, il capo della Farnesina ha parlato di voler riattivare l’accordo di amicizia tra la Libia e l’Italia, firmato da Gheddafi e Berlusconi nel 2008. Moneim quel giorno lo ricorda, come “uno dei momenti più belli per il popolo libico. Le scuse dell’Italia alla Libia ed il risarcimento per anni di colonizzazione erano un momento della storia che non avremmo mai potuto dimenticare”. Così mentre esperti ed analisti si interrogano se la rimessa in vigore del Trattato di amicizia possa dare i suoi frutti oggi, i libici si chiedono come possano fidarsi nuovamente dell’Italia dopo la sua partecipazione all’intervento della Nato nel 2011.

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“Da questa strada, gli ultimi 200 uomini hanno lasciato la piazza di Izz al-Azz, con un totale di 43.000 saccheggiatori e 40 paesi crociati. Da qui le anime delle candele della resistenza si sono diffuse in fiamme in tutta la Libia”.

Muammar Gheddafi – prosegue –era la coscienza del mondo, seguito da tutte quelle persone che vogliono la gloria, la libertà e non vogliono la schiavitù, un simbolo che è difficile da dimenticare”. Poi ci confessa: “amo tutto del mio paese, perfino lo sporco su cui cammino perché è narrato dal sangue dei miei antenati. Questa è la gloria che non può essere sottovalutata”. Si rattrista al pensiero che “i soldati della NATO hanno visto con loro alcuni agenti libici ed arabi. Quando ho visto alcuni di loro tra le loro file, ho capito che Israele aveva raggiunto il suo obiettivo, quello di spegnere l’ultimo simbolo dell’islam arabo, Muammar Gheddafi. Questo è ciò che mi fa più male al cuore ogni giorno. Poi c’è il Qatar, sappiamo che Doha ha ancora il controllo della Libia e che insieme alla Turchia finanzia il terrorismo nel mondo”.
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Quando gli parliamo del futuro, Moneim ci dice che non ha speranze e che le elezioni potrebbero essere una soluzione solamente se vinte da Saif al-Islam, il figlio del rais. La cosa che ci sorprende è che indossa una divisa, “sì, sono un’agente di polizia, non ho mai ucciso nessuno ed il mio lavoro rappresenta un dovere nazionale nei confronti della Libia”.
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Preso da: https://specialelibia.it/2018/07/10/scendo-in-strada-a-bruciare-le-bandiere-italiane-il-giovane-moneim-ci-racconta-la-sua-rabbia/

LE RAGAZZE RAPITE IN NIGERIA, L’ASSASSINIO DI GHEDDAFI, BIN LADEN E I BARCONI DEI MIGRANTI

Aggiornato
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Qualcuno forse si chiederà cosa lega tra loro gli argomenti apparentemente disparati citati nel titolo. Da parte nostra ci ripromettiamo di mostrare come la distruzione dello stato libico guidato per 42 anni da Gheddafi, programmata da tempo dall’Occidente e dalle monarchie arabe reazionarie, abbia creato un’area di instabilità che coinvolge tutta l’Africa occidentale e sub-sahariana: una situazione che fornisce agli stati imperialisti ed ex-coloniali (come USA e Francia) continue occasioni di intervento e ingerenza in Africa.

La rivoluzione del 1969, condotta da un gruppo di giovani ufficiali nazionalisti e laici guidato da Gheddafi sul modello del nazionalismo arabo di Nasser, aveva permesso alla Libia un lungo periodo di crescita economica e stabilità. Tutti gli accordi con le multinazionali del petrolio erano stati ricontrattati permettendo allo stato libico di incassare ingenti somme ed effettuare preziosi investimenti. Erano state valorizzate le grandi risorse d’acqua sotterranee presenti sotto il deserto del Sahara, permettendo alla Libia di raggiungere l’autonomia alimentare. Il reddito pro-capite della popolazione era diventato il più alto dell’Africa. Era stata anzi varata una Banca Africana che avrebbe permesso a molti stati africani di sfuggire ai ricatti del FMI e delle grandi banche occidentali. Nella sua visione di liberazione panafricana  Gheddafi aveva finanziato molti movimenti di liberazione, ed in particolare l’ANC di Nelson Mandela, protagonista della lotta contro l’Apartheid in Sud-Africa.

L’ostilità occidentale contro le politiche di Gheddafi si era esplicata già in precedenti bombardamenti aerei statunitensi (in uno di questi fu uccisa una figlia di Gheddafi) e sanzioni imposte al paese accusato (senza prove evidenti) di aver causato la caduta di un aereo di linea a Lockerbie. Molti ignorano che anche Bin Laden (già agente statunitense e dell’Arabia Saudita nella lotta contro i Comunisti e i Sovietici in Afghanistan) era stato inviato anche in Libia per organizzare un complotto contro il governo laico-nazionalista di Gheddafi. La congiura, appoggiata dall’esterno dai servizi segreti britannici, era basata su clan tribali e gruppi confessionali di fanatici islamici, forti soprattutto in Cirenaica, dove la setta dei Senussi aveva sostenuto il vecchio re Idriss, fantoccio dei colonialisti inglesi defenestrato dalla rivoluzione.
Costretto alla fuga Bin Laden dopo che il suo progetto era stato smascherato, il piano di destabilizzazione è andato comunque avanti e si è finalmente attuato nel 2011 grazie anche all’intervento militare diretto della NATO e del Qatar, protettore e finanziatore di gruppi estremisti islamici in Libia, così come in Siria e in altri paesi.
Oggi notoriamente la Libia è nel caos più completo. Non esiste un governo degno di questo nome. Le bande armate di fanatici controllano singole città o quartieri, o singole installazioni petrolifere, tentando persino di vendere petrolio per proprio conto. Ben nota è la vicenda della petroliera battente una falsa bandiera nordcoreana, che, dopo aver acquistato petrolio in Cirenaica, è stata poi abbordata in alto mare dalla marina statunitense. Bande di assassini razzisti, come i famigerati miliziani di Misurata, già noti per la pulizia etnica effettuata ai danni dei cittadini di pelle troppo scura di Tawerga, fanno continuamente irruzione a Tripoli, e nello stesso Parlamento libico, completamente esautorato.
Le conseguenza sui paesi limitrofi sono state devastanti perché la Libia, che era una volta un paese organizzato e laico che bloccava il passaggio delle milizie islamiche ed il traffico delle armi, oggi, al contrario, si è trasformata in un crocevia da cui transitano le bande armate ed i rifornimenti per i vari movimenti terroristi.
La prima vittima è stata il Mali, paese sahariano e sub-sahariano posto a sud dell’Algeria, dove l’attacco delle bande armate di fanatici, sovrappostesi alle antiche rivendicazioni autonomiste dei nomadi Tuareg, hanno portato il caos e permesso alla Francia di intervenire militarmente rimettendo piede nella ex-colonia ricca di minerali. Ma situazioni simili si stanno verificando in altri paesi come la Repubblica Centro-africana. Anche qui i conflitti tribali e confessionali tra islamici e cristiani hanno dato modo alla Francia di intervenire (per non parlare della Costa d’Avorio dove un colpo di stato sostenuto dalla truppe francesi ha posto al potere un fantoccio della Francia).
Il clamoroso caso delle ragazze rapite nella Nigeria settentrionale, essenzialmente colpevoli di essere troppo istruite, oltre che cristiane, si iscrive in questo quadro. L’azione dei terroristi islamici di Boko Haram ha permesso a squadre militari di “esperti” statunitensi ed inglesi di ingerirsi negli affari interni nigeriani, mentre l’agitazione si estende in tutta l’Africa sub-sahariana.
Un altro elemento destabilizzante è stato indubbiamente anche il progressivo collasso, in gran parte operato dall’esterno, di un altro grande paese considerato “stato-canaglia”come il Sudan. La parte meridionale di questo stato, resasi indipendente con l’aiuto occidentale, è preda di conflitti tribali sanguinosi, mentre altre agitazioni coinvolgono il Darfur, vasta zona occidentale ai confini con il Ciad, paese anch’esso coinvolto, così come il Niger. Anche la fuga dalla Libia di oltre un milione di lavoratori egiziani ha contribuito ai disordini ed alla crisi economica che perdura in Egitto.
Le conseguenze di queste destabilizzazioni programmate si avvertono anche attraverso un fenomeno che ci riguarda molto da vicino, quello di masse di esuli che tentano di raggiungere le nostre coste partendo da paesi devastati e dilaniati da crisi e conflitti. I barconi che affondano nel Mediterraneo coinvolgendo nel disastro profughi africani, o anche provenienti dalla Siria (altro paese destabilizzato da ingerenze esterne statunitensi, europee, turche, e dell’Arabia Saudita e del Qatar), sono fatti che testimoniano anche del nostro diretto coinvolgimento in queste tragedie.
E’ evidente che solo un (per ora improbabile) cambio di politica da parte dell’Europa (non più ingerenze militari finto-“umanitarie”, ma una reale politica di rispetto e buon vicinato) può cominciare ad invertire queste tendenze disastrose per l’Africa, per i paesi del Vicino Oriente, ma domani anche per l’Europa stessa.

Vincenzo Brandi
Preso da: http://www.sibialiria.org/wordpress/?p=2454

Quello che ci hanno detto sulla Libia era tutto falso.

Libia: e se fosse tutto falso?

14/06/2011  In questo Dossier un po’ di buoni argomenti per riflettere sulla guerra, sulla missione Nato e sugli obiettivi dell’intervento militare.

La guerra della Nato in Libia (operazione “Protettore unificato”), alla quale l’Italia sta partecipando, è presentata all’opinione pubblica internazionale come un intervento umanitario “a tutela del popolo libico massacrato da Gheddafi”. In realtà la Nato e il Qatar sono schierati, per ragioni geostrategiche, a sostegno di una delle due parti armate nel conflitto, i ribelli di Bengasi (dall’altra parte sta il Governo). E questa guerra, come ha ricordato Lucio Caracciolo sulla rivista di geopolitica Limes, sarà ricordata come un “collasso dell’informazione”,  intrisa com’è di bugie e omissioni.

Le sta studiando la Fact Finding Commission (Commissione per l’accertamento dei fatti) fondata a Tripoli da una imprenditrice italiana, Tiziana Gamannossi, e da un attivista camerunese, con la partecipazione di attivisti da vari Paesi.

La madre di tutte le bugie: “10 mila morti e 55 mila feriti”. Il pretesto per un intervento dalle vere ragioni geostrategiche (http://globalresearch.ca/index.ph p?context=va&aid=23983) è stato fabbricato a febbraio. Lo scorso 23 febbraio, pochi giorni dopo l’inizio della rivolta, la tivù satellitare Al Arabyia denuncia via Twitter un massacro: “10mila morti e 50mila feriti in Libia”, con bombardamenti aerei su Tripoli e Bengasi e fosse comuni. La fonte è Sayed Al Shanuka, che parla da Parigi come membro libico della Corte penale internazionale – Cpi (http://www.ansamed.info/en/libia/news/ME.XEF93179.html).

La “notizia” fa il giro del mondo e offre la principale giustificazione all’intervento del Consiglio di Sicurezza e poi della Nato: per “proteggere i civili”. Non fa il giro del mondo invece la smentita da parte della stessa Corte Penale internazionale: “Il signor Sayed Al Shanuka – o El Hadi Shallouf – non è in alcun modo membro o consulente della Corte”(http://www.icc-cpi.int/NR/exeres/8974AA77-8CFD-4148-8FFC-FF3742BB6ECB.htm).

Ci sono foto o video di questo massacro di migliaia di persone in febbraio, a Tripoli e nell’Est? No. I bombardamenti dell’aviazione libica su tre quartieri di Tripoli? Nessun testimone. Nessun segno di distruzione: i satelliti militari russi che hanno monitorato la situazione fin dall’inizio non hanno rilevato nulla (http://rt.com/news/airstrikes-libya-russian-military/). E la “fossa comune” in riva al mare? E’ il cimitero (con fosse individuali!) di Sidi Hamed, dove lo scorso agosto si è svolta una normale opera di spostamento dei resti (http://www.youtube.com/watch?v=hPej4Ur_tz0). E le stragi ordinate da Gheddafi nell’Est della Libia subito in febbraio? Niente: ma possibile che sul posto nessuno avesse un telefonino per fotografare e filmare?

L’esperto camerunese di geopolitica Jean-Paul Pougala (docente a Ginevra) fa anche notare che per ricoverare i 55 mila feriti non sarebbero bastati gli ospedali di tutta l’Africa, dove solo un decimo dei posti letto è riservato alle emergenze (http://mondialisation.ca/index.php?context=va&aid=24960).

 
Ragazzi libici sfollati da Misurata.

Ragazzi libici sfollati da Misurata.

L’opera di demonizzazione del nemico, già suggerita con successo dall’agenzia Wirthlin Group agli Usa per la guerra contro l’Iraq, è riuscita ottimamente nel caso della Libia. “Gheddafi usa mercenari neri”. I soldati libici sono sempre definiti “mercenari”, “miliziani”, “cecchini”. In particolare i media sottolineano la presenza, fra i combattenti pro-governativi, di cittadini non libici del Continente Nero; i ribelli a riprova ne fotografano svariati cadaveri. Ma moltissimi libici delle tribù del Sud sono di pelle nera.

“I mercenari, i miliziani e i cecchini di Gheddafi violentano con il Viagra”.  Il governo libico imbottirebbe di viagra i soldati dando loro via libera a stupri di massa, è stata l’accusa della rappresentante Usa all’Onu Susan Rice. Ma Fred Abrahams, dell’organizzazione internazionale Human Rights Watch, afferma che ci sono alcuni casi credibili di aggressioni sessuali (del resto il Governo libico e alcuni migranti muovono le stesse accuse ai ribelli) ma non vi è la prova che si tratti di un ordine sistematico da parte del regime. Ugualmente fondata solo su contradditorie testimonianze (e riportata solo da un giornale scandalistico inglese (http://www.dailymail.co.uk/news/article-1380364/Libya-Gaddafis-troops-rape-children-young-eight.html) l’accusa di sterminio di intere famiglie e di violenze su bambini di otto anni.

“Gheddafi ha usato le bombe a grappolo a Misurata”.  Sottomunizioni dei micidiali ordigni Mat-129 sono stati trovati nella città da organizzazioni non governative e dal New York Times.  Tuttavia,secondo una ricerca di Human Rights Investigation (Hri) riportata da vari siti (http://www.uruknet.de/?l=e&p=-6&hd=0&size=1) potrebbero essere stati sparati dalle navi della Nato.

“Strage di civili a Misurata”. Negli scontri fra lealisti e ribelli armati sono certo morti decine o centinaia di civili, presi in mezzo. Ma ognuna delle due parti rivolge all’altra accuse di stragi e atrocità.

 
Un soldato dell'esercito regolare libico, ferito, con il figlio a Zliten.

Un soldato dell’esercito regolare libico, ferito, con il figlio a Zliten.

     Decine di migliaia di vittime civili…effetti collaterali dei “missilamenti” Nato. Oltre alle centinaia di morti civili nei bombardamenti aerei iniziati in marzo (oltre 700, secondo il Governo libico), e a centinaia di feriti tuttora ricoverati negli ospedali, la guerra ha provocato oltre 750 mila fra sfollati e rifugiati: dati forniti da Valerie Amos dell’Ufficio umanitario delle Nazioni Unite, ma risalente al 13 maggio. Si tratta di cittadini libici trasferitisi in altre parti del Paese e soprattutto di moltissimi migranti rimasti senza lavoro e timorosi di violenze (solo nel poverissimo Niger sono tornati oltre 66 mila cittadini: (http://www.mondialisation.ca/index.php?context=va&aid=24959).Oltre 1.500 migranti sarebbero già morti nel mar Mediterraneo dall’inizio dell’anno.

Atrocità commesse ai danni di neri e migranti. Secondo le denunce di Governi africani, di migranti neri in Libia, e le testimonianze raccolte da organizzazioni umanitarie come la Fédération internationale des droits de l’homme – Fidh (www.lexpress.fr/actualite/monde/libye-des-exactions-anti-noirs-dans-les-zones-rebelles_994554.html), nell’Est libico – controllato dai ribelli – innocenti lavoratori migranti sono stati accusatidi essere “mercenari di Gheddafi”e linciati, torturati, uccisi o comunque fatti oggetto di atti di razzismo e furti. I ribelli, come proverebbero diversi video, hanno giustiziato e seviziato soldati libici in particolare neri (http://fortresseurope.blogspot.com/search/label/Rivoluzionari%20e%20razzisti%3F%20I%20video). La comunità internazionale ha finora ignorato queste denunce.

Fatte cadere tutte le proposte negoziali. Fin dall’inizio della guerra civile libica, sono state avanzate diverse proposte negoziali, prima da Governi latinoamericani e poi dall’Unione Africana (Ua), che prevedevano il cessate il fuoco ed elezioni a breve termine.  Sono state tutte ignorate dalla Nato e dai ribelli.

Preso da: http://www.famigliacristiana.it/articolo/libia_140611115251.aspx